La contraddizione | Nell’anno del Profeta 1370. Petromonarchie, questione araba e imperialismo
Tratto dalla rivista marxista La contraddizione, n. 23, marzo-aprile 1991, web

In queste ultime settimane la stampa, anche quella alternativa, si è prodotta in svariate illustrazioni del quadro mediorientale. Ancor più la televisione. Non ci sembra opportuno perciò ripetere tutto quanto è stato detto e scritto, né saremmo in grado di farlo. Ci proponiamo solo di ricapitolare alcune questioni rilevanti, senza pretesa di completezza e senza neppure tentare di dire qualche parola definitiva. Anzi, molti problemi li accantoniamo provvisoriamente e li rimandiamo a considerazioni da svolgere sui prossimi numeri della rivista: a cominciare dalla “questione madre di tutte le questioni” – la questione palestinese. Su di essa ci sembra per ora sufficiente una dichiarazione assolutamente al di sopra di ogni sospetto, rilasciata nel 1948 da David ben Gurion, padre fondatore dello stato di Israele: “Se fossi un dirigente arabo non firmerei mai la pace con Israele. È ovvio: abbiamo preso il loro paese. Ci era stato promesso da dio, certo, ma perché ciò dovrebbe interessarli? Il nostro dio non è il loro. È vero che siamo originari di Israele, ma è un fatto che risale a duemila anni fa. In che modo può riguardarli? Ci sono stati l’antisemitismo, il nazismo, Hitler, Auschwitz. Ma è stata forse colpa loro? Essi vedono una cosa sola: siamo venuti e abbiamo rubato la loro terra”.
Circoscrivendo l’attenzione immediata al cosiddetto “mondo arabo” un paio di precisazioni preliminari ci sembrano essenziali.
Si è nell’Anno del Profeta 1370. Nel 1370 dell’Anno del Signore, l’Europa stava consumando gli ultimi secoli di feudalesimo: il papato era in crisi, scomuniche e scismi si susseguivano, l’Inghilterra e la Francia erano immerse nella guerra dei cent’anni, nell’impero germanico proliferavano le Leghe delle città, sui mari si combatteva per il monopolio commerciale, i paesi baltici venivano già sistematicamente colonizzati, e così via scannandosi. Mancava ancora più di un secolo – per fortuna dei pellerossa – alla scoperta ufficiale dell’America. Scherzi a parte, quasi per un paradosso cabalistico, sembrano spiegare di più i 622 anni di differenza contabile dall’Egira, tra i rispettivi calendari – per la coincidenza dei residui di feudalesimo e dispotismo – di quanto incida la contemporaneità moderna sull’attuale situazione delle società islamiche. La storia insegna, ma non si ripete. Infatti oggi è il mercato mondiale che determina il nuovo feudalesimo islamico ed è l’imperialismo multinazionale che lo domina.
Senza dire assolutamente nulla di nuovo, occorre però ricordare, in primo luogo, l’erroneità della semplificazione che identifica l’etnia e la cultura araba con l’islamismo. Se la prima ha rappresentato il terreno di coltura del secondo, è vero che quest’ultimo ha investito società del tutto diverse e differenziate. La civiltà araba è vecchia di tremila anni e si sviluppò come congiunzione delle diverse etnie che convivevano, appunto, sulla penisola arabica – l’“isola dei nomadi”: al nord le varie tribù nomadi beduine e al sud i differenti insediamenti agricoli e pastorizi, tendenti all’agglomerazione urbana. Solo dopo la fuga a Medina di Abdul Kasim el Mohammed (Maometto), appena 1370 anni fa, iniziò l’unificazione islamica della civiltà araba, che fu possibile solo per l’organizzazione militare delle formazioni combattenti maomettane che ebbero ragione, in scontri sanguinosi, delle altre forze arabe.
Questa origine non fu che la premessa delle lotte per le successioni califfali – che in mutate forme moderne continuano ancora – e che portarono spesso a versamento di sangue, a scontri furiosi tra eserciti, a lotte intestine tra dinastie familiari e clan, a scismi. Su questa base l’egemonia politica del nazionalismo arabo tra i popoli musulmani cominciò a dissolversi. Esso mantenne soltanto la supremazia culturale – come culla dell’Islam – lasciando l’organizzazione militare quasi interamente nelle mani di pretoriani e soldati turchi islamizzati. La classe dirigente, cedendo alla contraddizione tra nazionalismo arabo e carattere sovranazionale islamico, si aprì così a etnie non arabe ma islamizzate [persiane, curde, turche, afghane, pakistane, indiane, ecc.].
La sola unità religiosa – fondata sull’Islam, che non occorre chiamare integralista, essendolo per definizione – cercò via via di compensare la settorializzazione geografica di un sistema politico spezzettato in tanti piccoli poteri (così trovati e facilmente utilizzati dal capitalismo borghese occidentale). Quello che poi sarebbe diventato l’impero ottomano, da arabo-islamico diventava sempre più islamico e sempre meno arabo. L’arabismo divenne così la periferia dell’impero.
Parlare di mondo arabo è, poi, una seconda fonte di pericolosi equivoci, per diverse ragioni. Se è vero che la civiltà e la cultura araba è stata ignorata e occultata dell’eurocentrismo per secoli, la sua storia appena ricordata per semplici cenni mostra che l’unità nazionale e politica, ricorrentemente invocata da secoli in nome del panarabismo, ha un fondamento reale pratico solo poco più significativo di quanto ne abbia l’unità europea in virtù dell’antica civiltà occidentale.
Non si tratta soltanto delle rivalità, spesso remote, tra gruppi dominanti e dinastie nelle diverse realtà sociali arabe. Le nazioni e i paesi arabi, con i loro confini, sono caratterizzati da distinzioni etniche e storiche molto più profonde di quanto in questi giorni si sia detto e si sia fatto ritenere. Dunque è inutile nascondere identità nazionali ben differenziate, che trovano in distinte unità territoriali la loro rispettiva specificità. Tuttavia, le poche eccezioni artificiose di smembramento violento dell’unità nazionale ed etnica – prima fra tutte quella riguardante la Palestina, senza dimenticare il Kurdistan – sono così rilevanti che pure la sinistra ha attribuito la medesima arbitrarietà di confini anche ai piccoli stati del golfo, i cui sceiccati odierni sono invece eredi del nomadismo tribale di antica data. Altra cosa è, nondimeno, denunciare e combattere il clientelismo di sostegno all’imperialismo esibito in maniera sconcia dai vari untuosi emiri di turno.
La medesima dizione mondo arabo sottintende oggi – almeno come è usata qui da noi, in occidente – subordinazione all’ideologia del non-conflitto e del non-antagonismo interno a una società, ma possibilità solo eventuale di contrapposizione esterna. In particolare, con siffatta concettualizzazione ed espressione lessicale, si viene a negare in omaggio a una supponente unità superiore – la nazione, lo stato, il mondo – qualsiasi articolazione antitetica della struttura sociale, qualsiasi contraddizione sociale immanente, e con esse la lotta di classe.
La mistificazione geo-politica dell’opposizione tra nord e sud del mondo è preparata. Il cosiddetto nord è il sistema dei paesi industrializzati, ricchi, ora benefico ora assalito da rimorsi e sensi di colpa, secondo i punti di vista difeso nonostante tutto o denunciato in blocco. Il cosiddetto sud è il complesso dei paesi del terzo e quarto mondo, più o meno poveri, inopinatamente aggregati in entità astratte quali appunto Mondoarabo Africanera Americalatina. Con ciò le contraddizioni di classe sul piano interno, sia dei paesi imperialistici che di quelli dominati, e sul piano internazionale, con la fase imperialistica del loro rapporto di capitale su scala planetaria, sono occultate.
Il meglio che si possa ottenere da ciò è un trito terzomondismo. La presenza di una classe clientelare del capitalismo imperialistico all’interno dei paesi dominati viene cancellata, da destra e da sinistra. Il fatto che questa classe – compradora, finanziaria o industriale – sia circondata da una schiera di moderni servitori (militari, governanti, preti, ecc., generalmente agglutinati in una sovrastruttura dittatoriale) che non rappresentano minimamente gli interessi delle masse e che, anzi, le opprimono e ne perseguitano le avanguardie di lotta, è rimosso. È rimosso a tal punto che sparisce anche dalla coscienza popolare, la quale diviene così facile preda del fideismo populistico.
Le “monarchie del petrolio” (Petromonarchie)
La regione mediorientale a est di Suez – o Asia di sud-ovest – direttamente o indirettamente coinvolta dall’intervento bellico americano comprende (escluso Israele) paesi con 110 milioni di abitanti e con un prodotto lordo annuo di 350 mila miliardi, quindi mediamente basso ma assai malamente distribuito (per fare un paragone, il doppio degli abitanti italiani con un terzo del reddito totale, che significa un sesto a testa). Si sa che le classi ricche hanno basato le loro risorse iniziali sul petrolio, trasformato poi però in investimenti finanziari transnazionali nei centri imperialistici, mentre i paesi arretrati sono rimasti dipendenti sia da quelle classi dominanti regionali, sia dall’imperialismo. Le relazioni tra paesi sono differenziate secondo le alleanze storiche e le più recenti capacità di penetrazione. Senza generalizzare si può dire, tuttavia, che, mentre la presenza europea si è consolidata e quella giapponese è andata vistosamente crescendo, a fronte del dissolvimento dell’Urss anche gli Usa andavano perdendo sempre più colpi su colpi (a parte i caposaldi clientelari in Israele, Arabia Saudita e in parte Giordania). Ciò è significativo per lo svolgimento dei fatti.
Nel secondo dopoguerra i vecchi ceti dominanti feudal-dinastici vennero estromessi dal potere, e ridimensionati, dalle forze nazionalistiche (fautrici dell’indipendenza nazionale), in Egitto (1952), Irak (1958), Libia (1969), Yemen del Nord (1962-70, 1978): contemporaneamente i nazionalisti si affermarono nella lotta contro le potenze imperialiste coloniali in Algeria (1962) Yemen del Sud (1967), Siria (qui lo stato, indipendente dal 1946, dopo un periodo burrascoso, ritrovò un regime parlamentare a dominanza nazionalistico-progressiva nel 1954).
Un posto a sé occupano nella regione – a parte lo stato di Israele dalla cui esistenza sono pesantemente condizionati – la monarchia giordana e la repubblica libanese. Essi sono accomunati solo per la loro povertà e la forte dipendenza dagli altri paesi arabi (una parte rilevante del prodotto nazionale giordano deriva dalle rimesse degli emigrati, che le crisi belliche del golfo hanno ridotto ulteriormente).
I vecchi ceti dominanti riuscirono, invece, a conservare il potere nei paesi del Golfo [Arabia Saudita, Kuwait, Bahrein, Emirati arabi uniti (Eau), Oman, Qatar], riconvertendosi in oligarchie finanziarie grazie all’enorme rendita del petrolio. Essa ha consentito elevate esportazioni di capitali (petrodollari) all’estero – per centinaia di migliaia di miliardi di lire, secondo le quotazioni di petrolio e dollaro nei diversi anni – in particolare da parte di Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati.
Tali esportazioni hanno fatto degli emiri un’élite aristocratico-finanziaria funzionante come “classe di raccordo con l’egemonia della borghesia mondiale” [ad es. il Kio (Kuwait investment office), potente finanziaria dell’emiro del Kuwait, gestisce un portafoglio di oltre 100 mila miliardi di lire, con azioni o partecipazioni incrociate di imprese multinazionali come la Fiat, la Hoechst, la Mercedes, la Bp, la Paribas, la Suez, il Banco di Santander, la Daimler e altre. Oltre alla società petrolifera Q8, che ha propri punti di vendita in tutto il mondo, in Italia sono in mano kuwaitiana anche Gulf e Mobil. In Gran Bretagna sono investiti più di 30 mila miliardi di lire, il che significa quasi il 10% della BP, altrettanto della Midland Bank, il 21% del gruppo finanziario Dewey Warren, oltre ad enormi investimenti nei settori immobiliare e della assicurazioni. Parte di questo patrimonio sarà probabilmente venduto per reperire liquidi per la ricostruzione del paese].
Le petromonarchie hanno seguito una politica di produzione che ha cercato di sfruttare in maniera sempre crescente e più autonoma la propria posizione. Le quote Opec venivano e vengono superate in ogni occasione, con ogni pretesto (durante la guerra Irak-Iran i contesi pozzi di Khafji hanno estratto greggio kuwaitiano per conto dell’Irak). Normalmente tali eccessi di produzione sono occultati nelle contabilità statali di quei paesi, sottratte a ogni controllo, interno e internazionale. D’altra parte, la lobby petrolifera della Cee (guidata da Gran Bretagna e Olanda) ha sempre frapposto ostacoli protezionistici alla richiesta di migliori condizioni commerciali da parte degli emiri.
L’attività economica delle petromonarchie ha puntato negli ultimi anni a svincolarsi di più dalla dipendenza esclusiva dal petrolio, in parte cercando di procedere a una parziale industrializzazione interna (petrolchimica, plastica, ecc.), in alcuni casi cercando anche una sufficienza agricola (l’Arabia, a es., esporta orzo e grano), ma soprattutto attirando l’intermediazione finanziaria (Kuwait e Emirati) e differenziando le partecipazione azionarie e gli investimenti immobiliari all’estero, in un’ottica di internazionalizzazione del capitale.
Attraverso questi canali di finanziamento, il prodotto nazionale pro capite ha raggiunto livelli elevatissimi, dell’ordine dei 15 milioni l’anno. Naturalmente, tali medie si accompagnano a livelli di povertà di massa paurosi, per una distribuzione del reddito massimamente diseguale. Per rendersene conto basta confrontare quella cifra con il corrispondente reddito per persona dei paesi poveri della regione, compreso tra il mezzo milione o poco più dello Yemen e il massimo di tre milioni dell’Irak.
Le rendite petrolifere hanno consentito lo sviluppo di una sorta di stato sociale relativamente avanzato (istruzione gratuita, assistenza sanitaria diffusa, previdenza sociale: nonostante questo però in Arabia ancora muore un bambino su dieci sotto i 5 anni); di attirare manodopera immigrata [in Arabia quasi 4 milioni di pakistani sudanesi, filippini, indonesiani; in Kuwait il 70% delle forze di lavoro, giordani, palestinesi, irakeni (deportati brutalmente durante la guerra contro l’Iran) o filippini (importati quasi come schiavi, per un accordo con Marcos)] con salari relativamente elevati rispetto ai paesi di provenienza e ai paesi poveri della regione; ma soprattutto hanno consentito un consumismo sfrenato per i gruppi dominanti e i loro vassalli.
Il potere è gestito dispoticamente dalle famiglie dei monarchi che hanno sfruttato la religione per rafforzare il loro dominio. Non c’è alcuna traccia di rappresentatività o controllo popolare, non diciamo di democrazia borghese di tipo occidentale, perché ciò non ci interessa. In Arabia Saudita, in particolare – dove non a caso il sovrano non ha il titolo ufficiale di re, ma di Guardiano delle Sacre Moschee – la presenza della Mecca ha sempre permesso un’intensa propaganda basata sull’islamismo conservatore; il codice civile penale si basa sulla legge islamica custodita dai religiosi.
Nazionalismo arabo e indipendenza nazionale
Dalla periferia del dissolto impero ottomano, i nazionalismi arabi sono frutto dell’ascesa di classi borghesi medie in alleanza con settori di piccola borghesia, di intellettuali e del gruppo decisivo dei militari; hanno ottenuto l’appoggio di vaste masse popolari nel disegno di raggiungere l’indipendenza dalle potenze imperialiste coloniali e rimuovere i vecchi gruppi dispotico-feudali di potere.
Paradigmatica, a questo proposito, fu l’ascesa di Nasser in Egitto (1952), che alla testa del movimento dei “liberi ufficiali” avviò una rivoluzione politica di matrice anticoloniale. Quest’ultima però non ebbe i caratteri di una vera rivoluzione sociale. La riforma agraria tese ad affrontare il nodo dell’aumento demografico e non un autentico rivolgimento di classe. Il blocco dominante venne ricomposto “sulla base di un peculiare compromesso fra le diverse classi, nel contesto di un’ideologia intimamente avversa all’analisi e alla prospettiva marxista. Gli intellettuali di sinistra e i gruppi comunisti vengono alternativamente perseguitati o ‘isolati’, mentre in altri momenti se ne recepiscono alcune istanze, limitandole però a un ruolo subordinato. L’estrazione dell’ufficialità – che associa al potere elementi tecnocratici formatisi all’estero e una fetta della borghesia burocratica stimolata dalle riforme e dalle nazionalizzazioni – e i condizionamenti del passato assegnano un ruolo preciso alla ‘rivoluzione’: quello di conseguire i suoi obiettivi internazionali e di limitare le spinte delle classi subalterne” (Santarelli).
La rivoluzione politica rovesciò re Faruk, praticò una riforma agraria anche se parziale, nazionalizzò le banche, cercò di avviare uno sviluppo indipendente con una programmazione economica centralizzata (due piani quinquennali). Si trattò del tentativo di promuovere l’accumulazione capitalistica sul terreno del capitalismo di stato per garantire uno sviluppo autonomo del paese; il liberismo economico fu invece visto come elemento di subordinazione all’imperialismo.
Sul piano istituzionale si praticò una sorta di dittatura militare, con l’appoggio popolare, che colpì sia il fondamentalismo islamico che le forze di sinistra e i comunisti. Si delineò una specie di “unione corporativa nazionale”: il “Congresso delle forze popolari” segmentò e organizzò le classi e i ceti del paese. [Nei primi anni ‘60, i fellah (denominazione del gruppo etnico camitico, cui appartiene gran parte della popolazione egiziana; il termine, che in arabo significa “contadino”, designa i lavoratori manuali tanto della campagna quanto delle città) erano calcolati a 3,2 milioni (il 44%, ma con una rappresentanza ridotta al 35%); gli operai a 1,6 milioni (25%, ma con una rappresentanza ridotta al 20%); il capitalismo nazionale (600.000 persone), i sindacati professionali (172.000), i funzionari (700.000), gli studenti (305.000) videro accresciuto il loro peso numerico]. “Da queste combinazioni esce un equilibrio politico che non rimuove l’accumulazione capitalistica, ma la sposta sul terreno del capitalismo di stato, non rinnova le istituzioni nel senso dell’autogoverno, ma le nazionalizza, contaminando criteri collettivistici e solidaristici” (Santarelli).
L’ideologia del nasserismo rivendicò il nazionalismo arabo come lotta per l’unità della nazione araba. Nemico principale era l’imperialismo, inteso come atti egemonici del mondo occidentale. L’imperialismo era concepito come mostro che complotta contro i popoli, ma non venne sviluppata un’analisi scientifica di esso. Obiettivo fu il “socialismo arabo” inteso come capitalismo di stato che garantisse uno sviluppo autonomo; vi fu al contempo una diffusa ostilità culturale verso ineguaglianze e privilegi. L’Islam era rispettato, e lo si interpretò anzi come convergente con socialismo e arabismo. Tuttavia l’Islam non fu posto a fondamento dello stato: clero e stato erano separati e vennero smussate le rigidità della legge islamica tradizionale. Il marxismo e la lotta di classe furono costantemente avversati. L’estensione enorme del settore statale contribuì a costituire un relativamente nuovo gruppo sociale (burocrazia) che tendeva a integrarsi con le vecchie classi di proprietari terrieri e grande borghesia, ridimensionate dal nasserismo.
Analoghe alle vicende dell’Egitto furono per molti aspetti quelle della Siria e dell’Irak. In entrambi i casi fu protagonista il movimento Baath (rinascita), creato a Damasco negli anni ‘40 dal cristiano ortodosso Michel Aflak e dal sunnita Sahl al-Din Bitàr. Il partito tenne il suo primo congresso nel 1947 a Damasco; nel 1953 si fondò con il partito socialista arabo di Akram Hurani e prese il nome di partito baath arabo socialista. “È il primo a considerare il mondo arabo nel suo insieme come proprio campo di azione [si formano delle sezioni “regionali” in Cisgiordania (1948), Libano (1949-50) e in Irak (1951)]. Ma la “regione” siriana resta la più importante. Vede il suo massimo sviluppo negli anni ‘60 e diviene, col nasserismo, una delle principali espressioni del nazionalismo arabo rivoluzionario. Partito molto ideologico, il Baath adotta come parola d’ordine “Unità, liberazione, socialismo“. L’unità araba è al centro della sua dottrina e sopravanza ogni altro obiettivo. Secondo Aflak, i popoli arabi formano una sola nazione che aspira a costituire uno Stato e a sostenere un ruolo specifico nel mondo” (Gresh-Vidal).
Dal 1958 la Siria procedette su una strada simile a quella dell’Egitto con la riforma agraria e lo sviluppo dell’industria di trasformazione dei prodotti agricoli. Tuttavia, la limitata ricchezza petrolifera e la scarsezza idrica per l’agricoltura (finalmente affrontata con un tardivo accordo con la Giordania per la costruzione in comune di una diga sul Giordano) hanno sempre condizionato negativamente l’economia siriana. Le difficoltà economiche della Siria si sono aggravate con la questione libanese e con il conseguente rapporto di ostilità dei paesi capitalistici, recentemente tendenti verso una nuova normalizzazione (anche col cliente Israele) nel tentativo di superare la depressione economica. Sul piano istituzionale nelle elezioni del 1954 si affermarono le forze progressive (Baath, comunisti, nazionalisti). Nel 1958 si costituì, insieme con l’Egitto di Nasser, la Repubblica araba unita (Rau). Il Baath, che condivideva le analisi di Nasser sulla politica araba e internazionale, accettò di sciogliere la sezione siriana. I suoi membri parteciparono al potere, ma, sempre più emarginati, si dimisero dai propri incarichi alla fine del 1959. La Rau si sciolse nel 1961. Nel 1963 un colpo di stato riportò al potere il Baath che avviò riforme e nazionalizzazioni fino al 1966 in cui prese il potere un gruppo del Baath decisamente vicino alle posizioni del socialismo scientifico. Questo gruppo fu liquidato nel 1970 da Hafidh al-Assad, che impose la supremazia dell’esercito integrando (o eliminando) le altre componenti della vita politica siriana.
In Irak – paese perno del sistema di alleanze filo-occidentali in Medio Oriente (il trattato militare regionale fu varato nel 1955 con il “patto di Baghdad”) – nel 1958 il colpo di stato del generale Abd-el Karim Kassem rovesciò la monarchia di Faysal II e proclamò la repubblica. Kassem ritirò l’Irak dal patto di Baghdad e dalla federazione con la Giordania, strinse un accordo economico con l’Urss, avviò riforme progressiste, appoggiandosi, in una prima fase, ai comunisti (fino al 1960, quando i comunisti vennero estromessi dal governo con l’accusa di aver appoggiato le lotte curde scoppiate nella zona di Kirkuk).
Kassem venne rovesciato nel 1963 da un gruppo baathista “filonasseriano”, guidato dal colonnello Aref, che annunciò la fusione di tutti i partiti nell’Unione socialista araba dell’Irak e procedette alla nazionalizzazione di tutte le banche, delle compagnie di assicurazione, delle industrie del tabacco e del cemento. Ad Aref, morto nel 1966 in un incidente aereo, succedette il fratello, che costituì un governo regolare cui parteciparono anche rappresentanti curdi. Nel 1968 un colpo di stato portò alla presidenza il generale Ahmed Hassan el-Bakr, che formò un governo composto in gran parte da membri del Baath. Nel 1970 terminò la guerra, iniziata nel 1968, contro i curdi e si costituì un governo con la partecipazione di cinque ministri curdi (col riconoscimento dell’autonomia, in seguito negata, al popolo curdo). In una prima fase il regime, in cui Saddam Hussein era già uno degli uomini-chiave, costituì un fronte con i comunisti e nello stesso 1970 nazionalizzò i giacimenti petroliferi.
“In conseguenza dei lunghi periodi di clandestinità si produce un cambiamento nell’ideologia e persino nell’organizzazione del partito. Il Baath moltiplica gli attacchi contro la democrazia liberale. Si rafforzano le rivendicazioni di carattere socialista quando i militari assumono un maggior ruolo nell’apparato. E soprattutto l’insuccesso della Rau porta alcuni quadri a rimettere in discussione il dogma dell’unità araba” (Gresh-Vidal). Si affermò così una componente non più panaraba, ma favorevole al regionalismo (in Siria i “regionalisti” di Assad cacciarono con un colpo di Stato nel 1966 i loro rivali baathisti): due gruppi regionalisti, a Baghdad e Damasco, pur avendo entrambi matrici baathiste, progressivamente si contrapposero ferocemente. I due partiti baahtisti si trasformano in strumenti della politica di stato.
Apertura e subordinazione al capitale occidentale: l’infitah
Negli anni ‘70 il nazionalismo arabo rifluì. La sconfitta nella guerra del 1967, la morte di Nasser nel 1970, portarono Sadat – successore di Nasser in Egitto – a rivedere dal 1971 la politica economica (in parallelo con la politica estera) nel segno dell’infitah (dall’arabo: apertura). L’infitah indicò una politica economica liberistica in rottura con il “socialismo arabo” di Nasser o dei primi dirigenti baathisti siriani. Cominciata dal 1971 in Egitto, l’infitah conobbe il suo pieno sviluppo dopo l’ottobre 1973. Sadat ne definì allora le linee generali: incoraggiamento del settore privato e degli investimenti stranieri, apertura alle banche non egiziane, liberalizzazione del commercio estero, riduzione dello spazio del settore pubblico.
Quindici anni dopo il bilancio è contraddittorio. Il capitale privato straniero è stato investito soprattutto nei settori non industriali e non agricoli dove il profitto era immediato e cospicuo: import-export, immobili, banche, turismo. La speculazione e la corruzione hanno conosciuto uno sviluppo senza precedenti. Le diseguaglianze sociali si sono approfondite e la ricchezza sfacciata dei nuovi ricchi sfida la miseria crescente del popolo egiziano.
L’apertura ha significato che l’Egitto ha accentuato la sua dipendenza nei confronti degli aiuti esteri (in particolare sul piano agricolo e finanziario) e sono milioni gli operai, i quadri, i tecnici, emigrati per lavorare nei paesi petroliferi. Il settore pubblico, che doveva essere riformato si è dimostrato intoccabile: per motivi sociali, ma anche perché non esiste capitale privato imprenditoriale capace di assicurare la gestione di industrie così importanti come l’acciaio e gli armamenti. D’altro canto l’Egitto è diventato esportatore di petrolio, alcuni settori agricoli (cereali) e industriali hanno conosciuto una nuova efficienza. Ma l’esempio egiziano ha dimostrato la difficoltà di imporre un modello liberale in un’economia sottosviluppata, senza creare profonde distorsioni ed esplosioni sociali di cui le manifestazioni del gennaio 1977 al Cairo sono state il simbolo.
Anche in Siria si è sviluppata una parziale infitah dal 1970. La riforma agraria e il relativo successo del settore agricolo hanno assicurato la fedeltà del settore rurale. Gli sforzi per costruire delle infrastrutture e una sostenuta crescita non hanno evitato le disfunzioni dell’economia: bancarotta, inflazione, mancanza di valuta, burocrazia, corruzione (nel dibattito all’interno del Baath sul rapporto tra settore statale e privato, che si rivelava più dinamico, un delegato all’VIII congresso nel 1985, si chiese se la Siria non fosse una società socialista impegnata sulla via del capitalismo …). Inoltre la crisi economica si era brutalmente aggravata. I prodotti di prima necessità diventavano rari e l’inflazione era galoppante. L’aiuto finanziario arabo – decisivo per colmare il disavanzo di bilancio e quello della bilancia dei pagamenti – è diminuito a partire dal 1986 poiché, a causa del crollo dei prezzi petroliferi e anche come punizione da infliggere ad al-Assad per il suo sostegno all’Iran nella guerra contro l’Irak, i paesi arabi non hanno più versato i loro contributi.
Per inciso è necessario osservare che, viceversa, la repubblica islamica dell’Iran ha finora respinto l’infitah, per evitare la dipendenza dall’estero. Nessun investimento diretto straniero è previsto. Gli investimenti in impianti sono accettati solo se pagabili con i prodotti stessi futuri (pay back). Per le infrastrutture sono stati stipulati contratti di appalto pubblico con Giappone, Germania, Italia, Francia, Corea. La prospettiva è quella di una economia mista, ma che non sia né capitalistica né socialista; una spinta verso un maggiore liberismo si manifesta a causa dell’opposizione crescente da parte dei grandi commercianti (bazaaris). Pur contando sull’apporto degli iraniani ricchi all’estero, sono stati ripresi, pragmaticamente, i rapporti commerciali e finanziari con Arabia Saudita e Kuwait. Tuttavia, anche l’Iran si è visto costretto ad avanzare richieste a Fmi e Banca mondiale, pur di non ricorrere alle banche private occidentali.
In Irak il regime baathista – in cui il vero centro del potere è il cosiddetto Consiglio del comando della rivoluzione presieduto dal 1979 da Saddam Hussein – sviluppò una politica di tipo nasseriano in campo economico per tutti gli anni ‘70, affrontando l’analfabetismo, promuovendo una certa emancipazione della donna, nazionalizzando il petrolio, abolendo il latifondo. Il dominio del regime “saddamista” si fondò, da un lato, su una sorta di welfare state, che garantiva una fetta di consenso al regime, dall’altro, su un sistema di potere terroristico basato sulla repressione (contro i curdi nel 1975, contro i comunisti nel 1979), sulla militarizzazione del partito Baath (50.000 membri, 1,5 milioni di simpatizzanti), su polizia, esercito e servizi segreti.
Il potere si è sempre più concentrato nelle mani di Saddam e del suo clan – i takriti, così chiamati dal nome della loro città di origine, Takrit, oggi completamente rasa al suolo dalla vendetta americana. I takriti sono ai massimi livelli dello stato. Essi sono stati i principali beneficiari della privatizzazione – nel senso letterale della parola! – attuata da Saddam nel 1987. Molti di loro hanno acquistato a basso costo le azioni delle aziende pubbliche privatizzate e poi le hanno rivendute a prezzi proibitivi a uomini d’affari e industriali.
Le importazioni agricole sono più che quintuplicate dal 1974 al 1988, poiché è aumentata – fino al 70% del totale – l’estensione di terre incolte e abbandonate. L’industria leggera (alimentare e tessile) ha perso peso nei confronti dell’industria chimica e dei mezzi di trasporto, legati alla produzione bellica. L’economia irakena è un’economia sostanzialmente condizionata dal petrolio, e quindi con una forte dipendenza dal commercio internazionale, anche se le prospettive di decollo industriale, fin dall’inizio degli anni ‘80, erano le più promettenti della regione [si cominciò a sviluppare la mitologia dell’Irak come possibile piccolo Giappone arabo, stipulando nuovi accordi finanziari con Usa e Gran Bretagna con l’obiettivo di diventare il primo mercato arabo].
In questo senso la ricerca di differenziazione dell’economia irakena aveva portato il paese a intensificare gli scambi commerciali – pagando in petrolio impianti, macchine, materie prime e alimentari – con diversi paesi (Brasile, Turchia, Francia, Italia, oltre che Giappone). A ciò era collegato il tentativo di rendersi autonomo nella vendita di petrolio alla Cee, attraverso l’esistente oleodotto passante per la Turchia e facendone costruire un secondo (da in consorzio comprendente ditte italiane, francesi, giapponesi e coreane): questa scelta non piaceva agli Usa, che d’altronde non erano stati in grado di garantire sicurezza all’oleodotto alternativo per Aqaba, minacciato da Israele.
Dal 1972 l’Ipc, la compagnia nazionalizzata petrolifera che controlla le estrazioni, ha costituito il perno del regime dispotico sorvegliando ogni aspetto della vita del paese, eccetto le attività agricole e commerciali marginali al di fuori dei centri urbani. I vantaggi derivanti dalla rendita petrolifera negli anni ‘70, tuttavia, furono annullati dalla guerra contro l’Iran (1980-1988): da una posizione che vedeva riserve valutarie per 40 mmrd ?, l’Irak è arrivato a un debito di 100 mmrd [con Arabia Saudita e Kuwait, per contanti e petrolio in sostituzione, il debito ammontava a 50 mmrd, e ciò è significativo per spiegare il successivo contenzioso irakeno con questi due paesi; i principali creditori non arabi erano Francia (circa 10 mmrd), Giappone e Italia (circa 5 ciascuno) Germania, Gran Bretagna].
Il capovolgimento della bilancia dei pagamenti irakena fu infatti dovuto alla guerra contro l’Iran, durante la quale la spesa per armi raggiunse un totale stimato in 120 mmrd, pari al 30% del pnl (con punte del 50%), in presenza di una costante crescita dell’impegno bellico (1 milione a persona l’anno). [Nello stesso periodo l’Iran avrebbe speso un totale di 80 mmrd, con una tendenza alla diminuzione dell’impegno militare passando dal 20% del pnl all’8% (per una media di ½ milione a persona l’anno). Così il totale della spesa militare in entrambi paesi è stimato in quasi 200 mmrd, durante la guerra. I danni complessivi, diretti e indiretti, comprese le mancate rendite petrolifere, sono stati valutati in complessivi 1500 mmrd (900 per l’Iran, pari ai ? del pnl dell’intero periodo, e 600 per l’Irak, pari a più del pnl del periodo): il costo complessivo della guerra ha superato la rendita petrolifera totale che Irak e Iran hanno ricevuto nel corso di questo secolo].
L’esportazione di petrolio già non era ritenuta sufficiente a finanziare la ricostruzione del dopoguerra con l’Iran, per affrontare la quale sarebbe stato necessario riconvertire l’aiuto regionale di Arabia Saudita e Kuwait (pari a 70 mmrd di finanziamento militare durante il periodo bellico) e dei maggiori fornitori di armi. “I principali fornitori di armi sono coloro che hanno tratto il maggior beneficio dalla militarizzazione del golfo. Senza il loro consenso e la loro collaborazione per ridurre l’afflusso di armi verso la regione, non ci si può aspettare alcuna attenuazione della crisi e nessuna seria prospettiva di effettiva riconciliazione tra gli stessi paesi del golfo” (Mofid). Quel consenso e quella collaborazione sono mancati, anzi la militarizzazione della regione si è intensificata: le conseguenze erano facilmente prevedibili.
Contraddizioni tra petromonarchie, stati nazionalisti e imperialismo
Gli anni ‘50 e ‘60 avevano visto molti paesi affrancarsi dal dominio coloniale e feudale. Gli anni ‘70, seguiti alla sconfitta militare di Nasser nella guerra del ‘67 contro Israele, segnarono il ridimensionamento dei regimi radicali (con il potere di Sadat in Egitto e di Assad in Siria) e l’ascesa del prestigio dei Sauditi di re Feisal. La vittoria del 1973 (Sadat sconfisse, sia pur parzialmente, Israele) e la nascita dell’Opec come strumento per migliorare le ragioni di scambio dei paesi arabi furono elementi che consentirono di giungere a un tacito accordo tra petromonarchie e stati nazionalisti.
Questo accordo, raggiunto dopo la prima crisi del petrolio, prevedeva che i paesi beneficiati dalle enormi rendite petrolifere garantissero un sistema di sicurezza sociale ai paesi poveri ad alto tasso di incremento demografico e un contributo certo al loro sforzo bellico contro Israele. In cambio i regimi nazionalisti si impegnavano a cessare i loro tentativi di destabilizzare le petromonarchie (come, a es., aveva fatto Nasser appoggiando i rivoltosi yemeniti).
I sauditi spinsero il blocco verso l’alleanza con gli Usa, perché conservatori e perché interessati ai vantaggi politico-economici di tale alleanza. I paesi radicali (Irak, Siria, Algeria) aderirono a questo progetto, anche riservavano ancora nei loro paesi un ruolo importante al capitalismo di stato e continuavano ad agitare una fraseologia egualitaria, mostrando diffidenza verso gli Usa.
L’arabismo sembrò diventare in tal modo l’ideologia di uno sviluppo graduale di una multiforme potenza capitalistica alleata con gli Usa. In questo senso anche l’Islam venne utilizzato dalle classi dominanti come fattore di coesione nazionale in senso moderato. Elementi di disturbo di questa politica sono stati, tra gli arabi, Libia, Yemen e Olp: i primi due in quanto paesi che, da sponde diverse, rivendicano antimperialismo e antisionismo; l’Olp, in quanto movimento tradizionalmente laico, che è visto come una perenne minaccia per questo equilibrio a guida Usa, a causa della sua capacità di attrazione per le vaste masse arabe dei diseredati, delusi sia dalle petromonarchie che dal riflusso dei nazionalismi. Tra i musulmani non arabi, l’elemento principale di disturbo di tale stabilizzazione politica è costituito dalla repubblica islamica del’Iran. Proprio a causa di questa doppia contraddizione, Yemen e Libia non furono alleati dell’Irak nella guerra scatenata contro l’Iran a difesa degli interessi delle petromonarchie del Golfo. Il diffondersi tra gli arabi (soprattutto nella minoranza sciita) e in occidente del khomeinismo e dell’esportazione planetaria della “rivoluzione islamica” rappresentò la migliore opportunità per ricontrattare nel blocco monarco-radicale la centralità dell’Irak, “scudo del mondo arabo contro i persiani”. Con Saddam – loro malgrado – furono Arabia, Kuwait, Emirati ed Egitto; contro, la Siria, rivale regionale.
Gli stessi Usa, spaventati dalla rivoluzione khomeinista, appoggiarono Baghdad. Dal 1982 le relazioni Usa-Irak si svilupparono, in primo luogo, in direzione del settore militare dove gli irakeni ottennero subito dagli Usa 486 licenze per l’importazione di tecnologie di utilizzazione militare derivata, per un importo iniziale diretto di mille miliardi di lire, oltre le voci indirette (gli elicotteri, a es., entrarono nel paese come acquisti per attività “ricreative”). Nel settore commerciale, l’Irak divenne il primo compratore di riso e l’ottavo di grano dagli Usa, raggiungendo un interscambio nel 1989 di quasi 5 mila miliardi di lire. Si creò così una lobby legata da un lato all’esportazione di grano in Irak e dall’altro alla preferenza accordata da Saddam alle tecnologie americane rispetto a quelle giapponesi.
Ma in questi anni “i paesi arabi ad alto tasso d’incremento demografico si sono impoveriti quanto si sono arricchite le petromonarchie. La disoccupazione è generalizzata, l’inflazione galoppa, l’industrializzazione è rimasta una chimera, trovare un posto di lavoro in uno sceiccato del Golfo è un sogno, e questo anche perché gli organismi interarabi creati dopo il tacito accordo del ‘73 sono rimasti, da allora, contenitori vuoti, soprattutto il Fondo monetario arabo e il Fondo arabo per lo sviluppo economico e sociale. Non altrettanto si può dire per gli istituti che le petromonarchie hanno creato, in chiave antisovietica, nei paesi islamici dell’Africa nera e asiatici. Quando il conflitto afghano si trasforma in un’autentica ossessione per l’Arabia, che spende per i profughi afghani molto più di quanto faccia per i palestinesi, la disparità di trattamento diventa evidente e ingiustificabile agli occhi del mondo arabo”; si tratta di “una precisa scelta di campo compiuta da Riyadh e dagli altri sceiccati: il campo occidentale, il campo degli Usa, del Giappone e della Germania, dei paesi cioè che hanno sempre rifiutato una stabilizzazione dei prezzi delle materie prime, magari tramite un meccanismo di adeguamento automatico con i prezzi internazionali” (Kiwan).
Note
[*] Sul 1370: ovviamente, la data corretta sarebbe un’altra, secondo l’esatto calendario islamico; ma qui, vivendo in un mondo dominato dalla religione cristiana, si è posto soltanto simbolicamente l’anno che corrisponderebbe a quello calcolato sulla base del calendario arbitrariamente stabilito dai cristiani stessi, che conta il tempo secondo l’anno del signore (della sua presunta nascita in terra) anziché secondo l’anno del profeta (a partire dalla sua fuga a Medina dalla Mecca, l’egira, esecondo una diversa temporalizzazione).