Marco Riformetti | L’esperienza del Museo della cultura pittorica di Mosca e l’INKhUK
Tratto da Marco Riformetti, Comunisti, arte e cultura dal primo al secondo dopoguerra del Novecento, Tesi di laurea in “Storia e società” (LM84), maggio 2025.

Negli stessi anni in cui si sviluppa la Scuola d’arte popolare di Vitebsk altre istituzioni e altri movimenti d’avanguardia nascono nella Russia rivoluzionaria. Nel 1919 viene creato a Mosca il Museo della cultura artistica [6] che in seguito cambierà il proprio nome in Museo della cultura pittorica. Questo museo si caratterizza per il fatto di ospitare esibizioni ed attività legate all’arte d’avanguardia, ma anche per una peculiarità “manageriale” ovvero per il fatto di essere guidato direttamente da artisti
«Vladimir Tatlin, Sofia Dymshits-Tolstaia, Kazimir Malevic, Aleksandr Drevin, Aleksandr Rodchenko, Varvara Stepanova e Vasilii Kandinskii» (Dzhafarova [1992], p. 475)
Stiamo parlando di alcuni tra i più importanti artisti della “left art” russa degli anni ’20, buona parte dei quali era stata tenuta ai margini dallo zarismo, non particolarmente incline verso talune sensibilità politiche e artistiche
«L’istituzione del NARKOMPROS [7] [Commissariato del popolo per l’istruzione] nell’organigramma del governo rivoluzionario guidato da Lenin, subito dopo la proclamazione della Repubblica dei Soviet (gennaio 1918), segna per ciò che riguarda il mondo culturale russo il più clamoroso dei rovesciamenti di situazione. I giovani artisti che avevano per anni lottato contro le istituzioni accademiche del regime zarista, e che da quel regime erano stati mantenuti in condizioni di emarginazione sociale, si ritrovano improvvisamente ai vertici dell’organizzazione politica della cultura» (Sproccati [2015])
Il NARKOMPROS viene in genere definito come ministero “dell’istruzione”, ma in realtà è molto di più; è anche un ministero “della cultura e delle arti” visto che sotto la sua supervisione ricadono le nascenti istituzioni dedicate all’arte d’avanguardia così come la gestione dell’immenso patrimonio culturale che il nuovo governo ha appena espropriato ai grandi capitalisti, alle istituzioni religiose e ai grandi patrimoni aristocratici. Il fatto che il NARKOMPROS conferisca proprio agli artisti (e non a manager o a funzionari dello Stato) la guida delle istituzioni artistiche d’avanguardia è coerente con l’ambizione del nascente stato sovietico di trasformare radicalmente il ruolo dell’arte e della cultura nella vita della comunità.
I primi quattro direttori sono Vassili Kandinskij, Alexander Rodchenko, Pyotr Vil’yams e Lazar Vainer.
«Nel 1919 e nel 1920 [Rodchenko] fu a capo dell’amministrazione museale, che nel 1922 aveva acquisito circa 2.000 opere d’arte moderna e contemporanea da 415 artisti e aveva organizzato trenta musei provinciali, ai quali aveva distribuito più della metà delle opere. Le collezioni esposte al Museo della Cultura Pittorica, il fulcro moscovita dell’amministrazione museale, hanno tracciato sistematicamente lo sviluppo formale dell’arte recente, anticipando il programma del Museo d’Arte Moderna, fondato a New York nel 1929» (MOMA [1998])
È degno di nota che il MOMA definisca “anticipatore” il programma del Museo della cultura pittorica sovietico rispetto al proprio stesso programma.
Il Museo non vuol essere una semplice collezione [8] bensì una vera e propria istituzione culturale intenzionata a distogliere il visitatore da una posizione puramente contemplativa e a stimolarne la crescita culturale conducendolo fin dentro la mente degli artisti. Per questa ragione si forma l’Istituto di cultura artistica – l’INKhUK [9] – animato da artisti come Vassili Kandinskij, El Lissitzky, Alexander Rodchenko, Aleksei Gan… che collabora sinergicamente con il Museo; le esposizioni del Museo forniscono elementi di riflessione per l’Istituto e le ricerche condotte dall’Istituto si riflettono anche nel cosa (e nel come) viene esposto nel Museo. Si tratta di un punto politico fondamentale: coerentemente con l’ispirazione della rivoluzione, viene enfatizzato il valore educativo della cultura che viene pensata come “cultura per le masse” (da distinguere nettamente dalla “cultura di massa” che si farà largo nella fase successiva a Oriente e soprattutto a Occidente, e che non ha alcuna sincera intenzione pedagogica). Si può dunque ben dire che il Museo stesso è una istituzione d’avanguardia come d’avanguardia sono le opere che presenta al pubblico. In un certo senso l’approccio degli artisti rivoluzionari può essere riassunto in questa frase dello scultore costruttivista russo Anton Pevsner [10]
«Il nostro obbiettivo è di educare le masse popolari in una nuova direzione…» (in Dzhafarova [1998], p. 476)
Svetlana Dzhafarova propone un’interpretazione suggestiva dell’enorme apertura del nascente sistema sovietico verso le avanguardie artistiche affermando che il “futurismo” viene scelto come arte preferita non tanto sulla base di criteri estetici quanto piuttosto sulla base di criteri politici e in particolare sulla base della vicinanza degli artisti futuristi alla rivoluzione
«Il futurismo divenne l’arte ufficiale della nuova Russia […] La disputa sul potere venne risolta non in base ad una preferenza artistica ma in base ad una preferenza per le persone. Il “futurismo” [11] non era necessario, ma i “futuristi” sì; il realismo, al contrario, era necessario, ma i realisti no» (Dzhafarova [1992], p. 476)
Si tratta di un’idea che può essere condivisa solo in parte dal momento che suggerisce un approccio esclusivamente strumentale che non corrisponde alla realtà, ma che ha il pregio di fissare un punto: in questa fase i comunisti russi non hanno rigide preclusioni o predilezioni dal punto di vista estetico verso una forma d’arte o un’altra. Anche, e talvolta soprattutto, le forme d’arte apparentemente meno “immediate” partecipano al processo rivoluzionario.
D’altra parte, una fase storica è rivoluzionaria anche in quanto cambia il modo in cui il mondo è stato fino a quel momento rappresentato. E che la fase sia rivoluzionaria emerge dal fatto che tutta la società russa è in fermento e lo è, ovviamente, anche il mondo dell’arte. Per misurare la ricchezza della scena artistica nella Russia rivoluzionaria e la sua influenza anche fuori dall’URSS basterà ricordare ciò che annota nel suo Diario russo Alfred Barr (che di lì a poco fonderà il MOMA di New York)
«Ci sentiamo come se questo fosse per noi il posto più importante al mondo in cui essere. Tanta abbondanza, così tanto da vedere: persone, teatri, film, chiese, immagini, musica e solo un mese per farlo […]. È impossibile descrivere la sensazione di euforia; forse […] la gioiosa speranza dei russi, la loro consapevolezza che la Russia ha almeno un secolo di grandezza davanti a sé, che crescerà mentre Francia e Inghilterra andranno verso il declino» (Barr, Russian Diary, p. 12 in Kantor [2002], p. 162)
In questo contesto si sviluppa un dibattito ampio e prolifico al quale partecipa anche l’INKhUK che tra il 1920 e il 1924 è al centro della nascita del costruttivismo (Zander, Rowell [1981]), in qualche modo “storicizzato” da Aleksei Gan nel 1922 (Sestili, Vazquez [2020]). Il dibattito che si svolge all’interno dell’Istituto verte su alcune questioni fondamentali che ritroveremo più volte negli anni e nei movimenti a venire (e anche nella nostra ricerca): la prima di tali questioni riguarda il rapporto dell’artista con la propria arte, una questione che pone in contrasto il nascente “gruppo di lavoro costruttivista” [12] con le idee di Kandinskij; questi, infatti, è portatore di un approccio più psicologico, spirituale, soggettivo: diciamo, più incentrato sulle emozioni dell’artista. Si tratta, peraltro, di un approccio molto diffuso nell’arte astratta contemporanea, lo abbiamo visto anche con Malevi? [13]. A questa impostazione se ne contrappone una più materialistica che tende a valorizzare l’utilità sociale dell’arte. Su questa strada il costruttivismo evolve necessariamente verso un approccio realista (e infatti i costruttivisti non sono astrattisti) (Khan-Magomedov [1993] [14]) e utilitarista, secondo il quale l’arte non dev’essere fine a sé stessa, ma deve mettersi al servizio di un’utilità sociale. Evidentemente, si tratta di un utilitarismo che si colloca agli antipodi di quello capitalistico per il quale l’opera è soprattutto un valore di scambio (la quotazione di mercato) e solo in modo del tutto strumentale un valore d’uso (il piacere estetico ed intellettuale del pubblico o anche lo stesso piacere creativo dell’artista). Anche se, potremmo aggiungere, partecipando attivamente al processo rivoluzionario, anche gli artisti più “idealisti” – Chagall, Malevi?, Kandinskij -, realizzano un’utilità importantissima e per certi versi persino primaria: l’utilità dello schierarsi a favore dello sviluppo della rivoluzione e della diffusione popolare dell’arte e della cultura. Non a caso il nuovo potere sovietico, muovendo da una visione più generale e meno ristretta al solo piano artistico, tende a promuovere la “coesistenza pacifica” degli stili e degli approcci culturali [15] purché, ovviamente, non ostili al processo politico in atto.
L’Istituto è al centro anche di una riflessione sul rapporto tra i concetti di “composizione” e “costruzione”, i quali hanno a che fare anch’essi con l’idea di arte e in particolare con l’idea di un’arte che assembla (compone) forme per offrire un puro piacere estetico oppure con quella di un’arte che costruisce il nuovo [16] per offrire un’utilità sociale. Non è un caso che i costruttivisti sviluppino, lo rivedremo in altro contesto, i terreni più applicativi dell’arte come la comunicazione, il design, l’architettura.
Gli artisti modernisti sposano le aspettative suscitate dalla rivoluzione e collaborano attivamente con il nuovo corso politico (qualcuno parla addirittura di una vera e propria fascinazione per i bolscevichi, cfr. Kachurin [2013]), assumendo ruoli importanti ad ogni livello; questo rende prive di fondamento le letture che suggeriscono un’arte d’avanguardia marginalizzata dalla rivoluzione.
Come sappiamo, la situazione è destinata a cambiare negli anni ’30, ma il cambiamento non dipenderà da un problema estetico. Aldilà della retorica, in un quadro di crescenti difficoltà è tutto il processo rivoluzionario che sarà costretto a fare un passo indietro.
Note
[6] Un analogo museo viene creato a Pietrogrado.
[7] Narodnyj komissariat prosveš?enija.
[8] Alla metà degli anni ’20 il museo viene identificato come una collezione di opere cubiste e futuriste (anche se in realtà entrambe le attribuzioni sono da considerarsi inadeguate).
[9] Institut Khudozhestvennoy Kultury (INKhUK): Institute of Artistic Culture, 1920-24.
[10] «Nel periodo 1917-1920 [Pevsner] insegnò all’Accademia d’arte di Mosca, lavorando con Malevi? e Kandinskij e frequentò il movimento d’avanguardia moscovita col fratello Naum Gabo» (Wikipedia).
[11] Si osservi come la parola “futuristi” appaia qui, giustamente, con le virgolette perché la Left art russa non è affatto interamente futurista. Se Malevi? è stato futurista anni prima, Kandinskij e Chagall non lo sono mai stati. E anche i costruttivisti non possono essere definiti tout court futuristi sebbene con i futuristi abbiano condiviso per una certa fase alcuni elementi programmatici.
[12] Il Gruppo di lavoro sul costruttivismo viene formato presso l’INKhUK il 20 aprile 1921 da Medunetsky, G. Stenberg, Ioganson, Gan, Rodchenko, V. Stenberg, Stepanova).
[13] E meglio lo si vedrebbe analizzando l’approccio ancor più “spirituale” dell’altro filone dell’astrattismo europeo, il movimento De Stijl di Piet Mondrian e Theo van Doesburg.
[14] Nel 1920 i fratelli Pevsner (Naum Gabo e Antoine Pevsner) scrivono addirittura un “Manifesto realista” che spingendo per l’allontanamento dal puro astrattismo e per la creazione/costruzione di oggetti e strutture concrete diventa un passaggio fondamentale nell’evoluzione del costruttivismo.
[15] «Anche Anatolii Lunacharsky, Commissario all’Istruzione (Enlightment), si schierò a favore della libertà di pensiero sostenendo, alla prima riunione plenaria della Commissione scientifico-artistica, che “per quanto riguarda l’arte pura… si deve evitare qualsiasi interferenza o sponsorizzazione di questo o quell’argomento”» (Misler [1997], trad. mia).
[16] Si osservi, per inciso, che ciò che è veramente nuovo non può limitarsi all’inedito assemblaggio di elementi già esistenti e tanto meno il loro semplice rispecchiamento. Per dirla in termini politici: il socialismo non è solo il mondo esistente trasformato, ma un mondo nuovo (che pure sviluppa anche elementi del vecchio mondo).