Marco Riformetti | A proposito di certe letture democratiche di Kant in quel di Pisa. Ancora su Kant e il diritto di voto
Marco Riformetti @academia.edu, A proposito di certe letture democratiche di Kant in quel di Pisa. Ancora su Kant e il diritto di voto, PDF, 6 pagg.

Di recente, mi è capitato di imbattermi in una serie di lezioni di Filosofia politica e di Storia della filosofia politica tenute presso l’università di Pisa nel quadro degli insegnamenti relativi al corso di laurea in Scienze politiche. In queste lezioni la docente [1] presenta il pensiero politico di Kant come un pensiero che da un’iniziale fase liberale evolverebbe verso una successiva fase apertamente democratica e per sostenere questa tesi suggerisce di considerare il tema del suffragio che nel saggio del 1793 Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica [2] Kant propone in forma limitata, mentre nel saggio del 1795 Per la pace perpetua [3] Kant presenterebbe in forma “universale”. Quella del Kant democratico è una linea interpretativa che effettivamente esiste nel mondo accademico (la stessa docente cita un brano di Norberto Bobbio in tal senso) ma io non sono intenzionato, in questa sede, a discuterne la fondatezza. Qui mi limito a discutere la fondatezza, sulla base delle fonti coinvolte, della tesi della docente a proposito della presunta evoluzione di Kant sul tema del suffragio; per chiarire, mi limito a dimostrare che non esiste alcuna evoluzione e tanto meno verso un’idea di suffragio universale.
Abbiamo già visto in altra sede [4] come Kant imposti la questione del diritto di voto nello Stato repubblicano [5] che vagheggia, uno Stato nel quale i membri sono liberi in quanto esseri umani, uguali in quanto sudditi e indipendenti in quanto cittadini. Precisamente Kant parla di
«indipendenza (sibisufficientia) di un membro della cosa comune come cittadino, cioè come colegislatore» [6]
Il cittadino che vota viene qui chiamato “co-legislatore” perché, proprio in quanto votante, egli parteciperebbe al processo di formazione delle leggi. Sì, una scemenza, ma una scemenza che corrisponde ad un tema ben preciso della visione politica di Kant secondo il quale il cittadino non dovrebbe essere costretto a sottomettersi ad una legge che egli non abbia concorso ad approvare; ora i cittadini non approvano proprio nulla ma secondo Kant se eleggono dei rappresentanti che legiferano al suo posto è come se a legiferare fossero essi stessi.
Ora, noi siamo abituati a pensare che i cittadini posseggano tutti il diritto di voto, ma in realtà il nesso tra cittadinanza e voto va invertito: tutti coloro che posseggono il diritto di voto sono cittadini. Lo afferma molto chiaramente proprio Kant
«chi ha il diritto di voto in questa legislazione si chiama cittadino» [7]
Secondo Kant, lo abbiamo detto, chi non possiede il requisito dell’indipendenza (economica) non ha diritto di voto e dunque non è cittadino della cosa comune.
«La qualità da richiedersi per essere tale, oltre a quella naturale (non essere né bambino, né donna) è una sola; che egli sia suo proprio signore (sui iuris) e quindi abbia una qualche proprietà» [8]
Gli artigiani che vendono qualcosa possono votare, ma sono esclusi tutti i “servi” (è questa la definizione che Kant dà dei lavoratori dipendenti), oltre alle donne e ai bambini per ragioni “naturali”.
«la praestatio operae non è una alienazione, il domestico, il commesso di bottega, il salariato a giornata, lo stesso parrucchiere sono solo operarii, non artifices (nel senso più ampio della parola), non membri dello stato, e quindi non sono neppure qualificati a essere cittadini» [9]
In una delle sue lezioni la nostra docente sostiene che nel saggio Per la pace perpetua la discriminante “proprietaria” per accedere al diritto di voto cade e che Kant ora propone il suffragio universale; deduce questo dal modo in cui Kant riformula i principi a priori dello stato civile che nel testo del 1795 diventano
«libertà dei membri della società (come esseri umani) […] dipendenza di tutti da un’unica legislazione comune (come sudditi) […] uguaglianza degli stessi (come cittadini)»
il passaggio che viene interpretato come caduta di qualsiasi restrizione al diritto di voto è quello sull’uguaglianza dei cittadini e in verità non è una trovata della docente, ma una lettura che a Pisa è diffusa da tempo
«Nel primo articolo definitivo della Pace perpetua (Zum ewigen Frieden 1795) vengono enunciati i tre principi a priori dell’idea di repubblica: la libertà di tutti in quanto uomini, la dipendenza in quanto sudditi, l’uguaglianza in quanto cittadini. Marini, nella prima sezione, chiarisce come, a differenza dello scritto Sul detto comune – antecedente di soli tre anni -, la qualità di cittadino non sia più legata alla sibi sufficientia (indipendenza economica) ma all’uguaglianza. La visione repubblicana di Kant nella Pace perpetua segna una svolta democratica rispetto a Sul detto comune in quanto la libertà è definita, roussovianamente, come autonomia (e non più come libertà negativa) e la cittadinanza è connessa all’uguaglianza» [10]
Questa lettura viene dunque fatta risalire a Giuliano Marini che per lungo tempo ha tenuto la cattedra di Filosofia politica a Scienze Politiche ed è stato il maestro della nostra docente.
Si tratta però di una interpretazione che non pare essere supportata adeguatamente dalle fonti e che si potrebbe confutare anche restando al testo Per la pace perpetua. Per farla più breve mi limito a mostrare come in un testo successivo, la Metafisica dei costumi (1797), Kant riproponga con un linguaggio ancora più astruso gli stessi concetti espressi nel saggio del 1793, il che, a questo punto, costituirebbe una svolta liberale dopo la (presunta) svolta democratica.
Nella Metafisica viene anzitutto ribadita la premessa
«Soltanto nella capacità di esprimere il voto consiste la qualifica di cittadino» [11]
È cittadino chi vota, sì, ma questo non significa affatto che tutti votino.
Qui Kant fa una delle tante “supercazzole” nelle quali è insuperato maestro: aveva esordito con l’uguaglianza dei cittadini, ma poi si scopre che i cittadini non sono davvero tutti uguali, in quanto ci sono i cittadini che sono semplici parti della comunità e cittadini che ne sono veri e propri membri
«Essa però presuppone l’indipendenza di chi, nel popolo, non vuole essere semplicemente parte della comunità, ma anche suo membro, ossia vuole essere una parte attiva della comunità in base al proprio arbitrio in comunione con gli altri. Quest’ultima qualità rende necessaria la distinzione del cittadino attivo da quello passivo» [12]
Come si vede ritorna il tema dell’indipendenza. Ovviamente Kant si rende conto che i suoi bizantinismi rischiano di produrre una gran confusione e aggiunge
«sebbene il concetto di cittadino passivo sembri contraddire la definizione del concetto di cittadino in generale» [13]
Proprio così. Dopodiché Kant si mette ad elencare, proprio come aveva fatto nel saggio Sul detto comune, chi possa e chi non possa essere “membro” della comunità, cioè chi possa e chi non possa essere cittadino attivo, dotato di diritto di voto: minori, donne, apprendisti, servitori, ecc… non sono cittadini e non votano.
Naturalmente Kant ci presenta questa idea non come la semplice discriminazione delle classi dominanti (aristocrazia e ormai anche borghesia) nei confronti delle classi popolari e delle donne [14], ma come un’esigenza di indipendenza necessaria nel momento in cui, con il voto, il cittadino viene ad essere “co-legislatore” (e ci mancherebbe di far co-legiferare pure operai, contadini e servi).
In sostanza, nel 1797 Kant ribadisce l’impostazione del 1793. E la cosa è tutto sommato ben comprensibile perché Kant è un uomo pienamente in sintonia con il proprio tempo, un tempo in cui il diritto di voto è molto lontano dall’essere universale (qualcuno parla del 3% [15] dei sudditi, anche meno degli aventi diritto all’epoca dell’antica democrazia ateniese che Luciano Canfora stima in un 10-15% della popolazione). Ci vorrà molto tempo per arrivare al suffragio universale maschile e ancor di più per arrivare a quello universale tout court.
Riepilogando, non c’è proprio alcuna evoluzione del pensiero di Kant sul tema del suffragio dal 1793 al 1795 al 1797. Del resto quella degli anni ‘90 non è una fase giovanile del filosofo prussiano, ma una fase di piena maturità ed è abbastanza inverosimile supporre evoluzioni così repentine da un pensiero solidamente liberale ad un pensiero ultra democratico; senza contare che Kant non perde mai l’occasione per chiarire che lui non condivide le idee democratiche e che se fosse costretto a scegliere tra un dispotismo democratico e un dispotismo monarchico sceglierebbe senza esitazione il secondo. Ma la nostra docente, essendo progressista e kantiana, non può accettare un Kant mezzo conservatore e mezzo illuminista e si inventa di sana pianta un Kant perseguitato politico, costretto ad esporre in modo criptico le sue idee ultra democratiche per non incappare nei rigori della censura; secondo questa lettura, quando Kant dice repubblicano bisogna intendere democratico e quando dice che la democrazia non gli piace si deve intendere che a non piacergli è solo la democrazia diretta (che peraltro era quella che preferiva Rousseau). Qui si aprirebbe un altro interessante approfondimento sul rapporto tra Kant e la democrazia (che magari vedremo in altra occasione), ma è a dir poco surreale che un uomo posizionato al vertice delle istituzioni accademiche del suo tempo, un filosofo che dialoga con il sovrano di Prussia, uno dei professori più pagati e omaggiati d’Europa, possa essere seriamente descritto come una specie di carbonaro (la docente non esita a fare affermazioni improbabili come quella che, ai suoi tempi, Kant veniva considerato addirittura un giacobino).
No, Kant non era un giacobino, ma un “intellettuale di transizione” posto a cavallo tra due mondi (il mondo che precede e quello che segue la rivoluzione borghese del 1789, il grande evento storico che egli, non a caso, pone alla base della sua incrollabile fiducia nel destino progressivo del genere umano [16].
In questa posizione Kant propone riflessioni che possono essere tranquillamente considerate conservatrici, ma anche riflessioni che possono essere considerate progressiste e che possono persino essere usate per sviluppare una critica al funzionamento della società contemporanea [17]. Restando alle fonti si potrebbe, per esempio, pensare al tema del diritto dello straniero a non essere trattato ostilmente per il suo arrivo sul territorio di un paese [18], un tema che può essere usato per contrastare le pulsioni xenofobe che dominano il dibattito politico nell’Unione Europea e negli Stati Uniti. Insomma, forzando la lettura di Kant, si possono sviluppare ragionamenti politici progressisti senza scomodare idee ed autori che sono stati politicamente assai più interessanti di Kant, come Karl Marx e Friedrich Engels, quelli sì perseguitati in tutta Europa perché per i proletari auspicavano, oltre il diritto di voto, il potere.
Note
[1] Maria Chiara Pievatolo.
[2] Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica, Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis, in «Berlinische Monatsschrift», 22 settembre 1793, pp. 201-284.
[3] Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf von Immanuel Kant, Koenigsberg, 1795.
[4] Marco Riformetti, Kant, Hegel, Marx e i diritti dei lavoratori (LINK).
[5] Sia detto en passant, per Kant forma di stato monarchica e forma di governo repubblicananon sono per nulla in antitesi, come tenderemmo a pensare noi (Kant, Sette scritti politici liberi, p. 205).
[6] Kant, Sul detto comune in Sette scritti politici liberi, p. 107.
[7] Kant, Sul detto comune in Sette scritti politici liberi, p. 109.
[8] Kant, Sul detto comune in Sette scritti politici liberi, p. 108.
[9] Kant, Sul detto comune in Sette scritti politici liberi, p. 108.
[10] Natascia Mattucci, Recensione a Giulio M. Chiodi, Giuliano Marini, Roberto Gatti (a cura di), La filosofia politica di Kant, Milano, Franco Angeli, 2001 (LINK).
[11] Kant, Metafisica dei costumi, Bompiani, 2006, p. 235.
[12] Kant, Ibidem.
[13] Kant, Ibidem.
[14] Qualcuno ha mostrato il fatto (a prima vista singolare) che dal punto di vista del suffragio femminile la Rivoluzione francese ha segnato addirittura un arretramento, visto che prima alcune donne possidenti avevano diritto al voto (sebbene spesso esso venisse esercitato indirettamente) mentre dopo, proprio come suggerisce per Kant, nessuna donna, per nessuna ragione, ha più potuto votare (cfr. Vinzia Fiorino, Il genere della cittadinanza. Diritti civili e politici delle donne in Francia (1789-1915), Viella, 2020).
[15] Bin, Pitruzzella, Diritto pubblico, Giappichelli, 2022, p. 34
[16] Kant, Riproposizione della questione: se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Sette scritti politici liberi, p. 249.
[17] Filosofi come Costanzo Preve hanno teorizzato che l’attuale fase – detta del capitalismo “assoluto” – avrebbe determinato il superamento della dicotomia tra proletariato e borghesia.
[18] Per la pace perpetua, in Sette scritti politici liberi, p. 168.



