Marco Riformetti | Ricerca sociale e campo giornalistico tra nuovi media e big data. Quadro storico-teorico (1)
Da Marco Riformetti, Ricerca sociale e campo giornalistico tra nuovi media e big data, Tesi di laurea in Sociologia e ricerca sociale (quasi completata, ma non presentata), Unipi, 2021, Pisa
Questo ultimo decennio si è caratterizzato per un poderoso sviluppo tecnologico che ha impattato su diverse aree di innovazione, dalla robotica alla genetica, dalle nanotecnologie all’intelligenza artificiale. Certamente una delle innovazioni più rilevanti è stata quella legata all’immenso sviluppo dei cosiddetti “nuovi media” ovvero delle nuove piattaforme per la comunicazione di massa (da YouTube agli innumerevoli blog presenti in rete) e in special modo dallo sviluppo dei cosiddetti “social network” (i vari Facebook, Twitter, Instagram e – in forma diversa – WhatsApp[1], TikTok, Snapchat, Twitch[2]…)[3].
Definire cosa si debba intendere per “nuovo” media è un compito non agevole posto che
«come ci ricorda McLuhan, ogni nuovo mezzo di comunicazione tende a riassumere in sé molte delle funzioni assolte dai media precedenti. Così è accaduto, ad esempio, con la televisione che ha assorbito la radio (quiz e telegiornali), il teatro (varietà e prosa), il cinema (film e serial)» (Stella, Riva, Scarcelli, Drusian [2014], pag. 7)
Tra “vecchi” e “nuovi” media non c’è una netta cesura; c’è piuttosto una sorta di aufhebung, un superamento che è al tempo stesso una parziale conservazione di ciò che viene superato.
«Uno dei topoi della letteratura contemporanea sulla sociologia della comunicazione è il passaggio dall’analogico al digitale. Questa transizione spesso viene concepita come un passaggio tecnologico (ad es.: Negroponte, 1999) o – nella migliore delle ipotesi – come un passaggio di tipo socioculturale […] In pratica è un cambiamento nella continuità della tradizione della comunicazione attraverso i media» (Bennato [2011])
Nonostante i ripetuti annunci di morte dei vecchi media (televisione e radio, anzitutto), questi restano ancora vivi e vegeti e svolgono un ruolo fondamentale nella nostra vita quotidiana anche perché sono stati in grado di adattarsi alle trasformazioni tecnologiche e alle tendenze emergenti (per fare un esempio, l’introduzione dello streaming e di una certa quota di “on demand”).
Probabilmente il concetto di new media è più facile ad intuirsi che a dirsi, ma possiamo comunque evidenziare alcuni elementi che lo caratterizzano: innanzitutto l’infrastruttura di comunicazione (nella sostanza, la rete Internet) e la mobilità dei dispositivi (con la conseguente proliferazione dei punti di accesso), come pure il carattere sempre più “user generated” dei contenuti[4] e la moltiplicazione delle data source. Senza contare la massa di dati prodotti dagli utenti – e dai sistemi su cui gli utenti si appoggiano per generarli (principalmente i social) – talmente smisurata che è stato coniato un neologismo di grandissimo successo: big data.
In genere, quando si parla di big data si fa riferimento a quantità di dati la cui entità, struttura e velocità di acquisizione non possono essere trattate adeguatamente attraverso gli strumenti tradizionali. Dal punto di vista della presente ricerca parlare di big data significa parlare di produzioni massive di dati che possono rivelare, quando trattate attraverso sistemi di elaborazione automatica di tipo probabilistico, correlazioni che sarebbero impossibili da rilevare in modo tradizionale. In questo senso, i big data costituiscono il fondamento di una vera e propria rivoluzione tecnologica e persino metodologica nel mondo della ricerca sociale.
«nel 2007, Savage e Burrows pubblicarono sulla rivista Sociology un articolo, ormai famoso, dal titolo The coming crisis of empirical sociology (Burrows, Savage [2007]), nel quale gli autori mostrarono preoccupazione sui possibili rischi connessi all’emergere e al diffondersi di nuove forme di dati in formato digitale: secondo gli studiosi, il processo di crescente digitalizzazione in atto avrebbe messo a rischio il ruolo della sociologia come forma pubblica di sapere e marginalizzato la ricerca accademica, spostando l’interpretazione dei fenomeni sociali dalle mani dei sociologi a quelle di altri esperti, in primis i professionisti dell’informatica» (Lombi [2015], pag. 215)
È sicuramente eccessivo temere che la sociologia possa essere messa in discussione, in quanto strumento di conoscenza, dall’avvento dell’era dei big data; d’altra parte è certo che nuove possibilità si aggiungono a quelle preesistenti così come è certo che talune competenze di tipo informatico diverranno indispensabili in un futuro molto prossimo, particolarmente in alcuni ambiti di ricerca (come quello dei social che ci interessa nel presente contesto).
«L’avvento dei big data determina un nuovo approccio al trattamento dei dati, capovolgendo la relazione tra domanda di ricerca e risultati, al punto che alcuni studiosi, come Chris Anderson, si sono chiesti se non siamo giunti «alla fine della teoria»: a che servono, infatti, le teorie se sono ormai i dati a rivelarci correlazioni e causazioni? Il tema è in realtà complesso perché le teorie poste a verifica empirica hanno l’ambizione della generalizzazione del risultato e di indagare regolarità non contingenti» (Delmastro, Nicita [2019])
[CONTINUA]
Note
[1] Con Facebook, Whatspp e Instagram che fanno parte di un unico gruppo – Facebook Inc., fondato da Mark Zuckerberg nel 2004 –.
[2] Controllato da Amazon.
[3] Senza contare i colossi “social” cinesi WeChat, QQ, Douyin, Sina Weibo… Cfr, Statista, Most popular social networks worldwide as of April 2021, ranked by number of active users.
[4] I contenuti generati dagli utenti e i metadata – ovvero tutte le informazioni sul dato (ora di emissione, geolocalizzazione, indirizzo IP…) – ad essi correlati (Curcio [2018]) possono essere considerati le pepite della “corsa all’oro” dei nostri tempi.