Marco Riformetti | Il PCI e le autoriduzioni
Tratto da Marco Riformetti, Tutti dentro con il biglietto del movimento. Gli “autoriduttori” nelle controculture giovanili degli anni ‘70, Tesi di laurea magistrale in “Sociologia e ricerca sociale”, maggio 2022.

Nei primissimi anni ‘70 l’atteggiamento del PCI verso il fenomeno delle autoriduzioni è un atteggiamento di attenzione (anche se esclusivamente nei confronti delle iniziative di lotta per l’autoriduzione dei fitti guidate dall’UNIA).
Nel 1972 «l’Unità» scrive
«Delegazione dell’UNIA alla presidenza del Consiglio. Migliaia di inquilini riprendono la lotta per la riduzione dei fitti: “Si tratta di famiglie che occupano appartamenti di proprietà di enti assistenziali. Questi ultimi si comportano al pari delle società immobiliari.” Portonaccio: la polizia interviene per far eseguire alcuni sfratti» [43]
L’articolo critica l’atteggiamento degli enti assistenziali (statali) che vengono accusati di comportarsi, intimando lo sfratto e il pagamento integrale del canone, come un qualsiasi proprietario privato.
Ancora nel 1973 «l’Unità» offre consigli per non essere sfrattati agli inquilini che si sono ridotti il canone unilateralmente (ovvero agli autoriduttori)
«Norme, consigli e precauzioni per non essere cacciati di casa. Le immobiliari all’offensiva: come difendersi dallo sfratto. Un “vademecum” dei giudici di “Magistratura democratica”. I vari tipi di cavilli usati dai proprietari degli appartamenti. Possibili alcune proroghe. Spiegare sempre al magistrato le proprie ragioni»[44]
A voler pensar male (come ebbe a dire qualcuno “si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”) si potrebbe osservare che l’atteggiamento del PCI non è orientato tanto a garantire il diritto degli inquilini autoriduttori, ma soprattutto ad affermare il ruolo del sindacato (in questo caso il SUNIA) come interlocutore con il quale istituzioni e società immobiliari devono confrontarsi se non vogliono ritrovarsi manifestazioni sotto casa. Quella che si rimprovera è infatti l’indisponibilità alla trattativa e il ricorso agli sgomberi coattivi
«L’intervento poliziesco appare ancora più grave se si considera che il SUNIA (sindacato unitario nazionale inquilini e assegnatari) sta portando avanti da circa due anni dei tentativi per aprire una trattativa allo scopo di risolvere il problema dei fitti e dei servizi sociali alla Magliana» [45]
In linea di principio, questa strategia di affermazione del sindacato come interlocutore non è sbagliata e il passaggio dal movimentismo autoriduzionista alla costruzione di un intervento collettivo, organizzato e permanente è certamente auspicabile. E la capacità del PCI di connettere trasversalmente la classe lavoratrice è innegabile. Già nel 1963 il PCI a Milano aveva convocato uno sciopero generale contro il caro-affitti:
«Il PCI, i sindacati, l’UNIST intensificano la loro azione sul problema-casa che culminerà nel settembre in uno sciopero generale contro il caro-affitti per la zona di Milano. Lo sciopero, il primo su temi sociali, vede una notevole partecipazione: un milione di lavoratori dell’industria, artigiani, commercianti si bloccano per mezza giornata» (DAOLIO [1974]).
Dal momento che il PCI è impegnato a promuovere il sindacato come espressione organizzativa degli autoriduttori dei fitti è comprensibile (sebbene non giustificabile) che tenda a sviluppare una certa “competizione” verso quei movimenti politici che si muovono sullo stesso terreno sindacale, ma con obbiettivi del tutto diversi, se non opposti. Nel giro di breve termine questa competizione si trasforma in vero e proprio scontro e l’atteggiamento del PCI verso il discorso autoriduzionista promosso dai movimenti della sinistra extra-parlamentare (e dunque verso le autoriduzioni che non sono controllate dalle proprie organizzazioni di massa) assume i caratteri di una vera e propria scomunica dai toni durissimi; non di rado si arriva ad usare metodi di contrasto politico molto più che discutibili (come quello di mettere alla gogna [46] i ragazzi che conducono iniziative autoriduzionistiche o quello di ridurre le autoriduzioni a teppismo [47] o anche quello, gravissimo, di accostare le iniziative di autoriduzione alla lotta armata e persino alla “strategia della tensione” per marchiarle con lo stigma terroristico).
Claudio Petruccioli espone alcuni elementi chiave della critica del PCI verso gli autoriduttori i quali vengono dipinti come persone che intendono semplicemente accedere in modo gratuito a determinati consumi da godere individualisticamente; secondo il PCI per gli autoriduttori
«[ogni] idea e ogni valore vanno bene se goduti e consumati individualmente; ogni idea e ogni valore divengono perversi quando se ne impadroniscono le masse, e tanto più quando li usano per organizzarsi, per costruire un moto di emancipazione, per estendere e approfondire la propria coscienza» (PETRUCCIOLI [1976])
Nella sua invettiva Petruccioli accomuna in modo un po’ sbrigativo la lotta per il mantenimento dei privilegi di Indro Montanelli con il “vogliamo tutto” di Nanni Balestrini e conclude così
«Gli ingordi di privilegi, gli autoriduttori di ogni risma, i chierici esibizionisti che “vogliono tutto” non ci sopportano perché siamo di un’altra stoffa» (Ibidem)
All’interno delle azioni di autoriduzione non sono assenti elementi di semplice adesione ad una certa logica “consumistica” che anzi in talune occasioni viene persino rivendicata: è quello che è stato chiamato il diritto al “superfluo”.
Ma il discorso autoriduzionista si muove su uno spettro molto ampio; quando l’autoriduzione riguarda beni di prima necessità si ricorre alla retorica pauperistica; quando invece non sono beni primari ad essere autoridotti (com’è nel caso di cinema o concerti rock) si ricorre al tema del diritto al “superfluo” (ammesso e non concesso che i consumi culturali e “spirituali” possano essere considerati superflui). Il PCI tende a descrivere le autoriduzioni come se fossero tutte del secondo tipo e a stigmatizzarle, come del resto fanno i giornali – specialmente a seguito di scontri particolarmente duri come quelli che avvengono il 7 dicembre 1976 a Milano, in occasione della “prima” alla Scala – che parlano di jacquerie e di atti di vandalismo da esecrare senza appello e da tenere ben distinti da un ‘68 ormai nobilitato anche dal lato conservatore della barricata
«i protagonisti della jacquerie sono cosa ben diversa e ben lontana dalla contestazione del ‘68. Né la politica, né il sistema delle leggi, né gli obiettivi e la strategia dell’azione interessano loro. Come le minuscole bande di contadini delle campagne francesi incendiano il castello» [48]
Il PCI stesso non è da meno e parla di «scontri con la polizia, vandalismi, provocazioni di ogni tipo» [49] provocati da “sedicenti” “circoli proletari giovanili”. Quello del “sedicenti” sarà il refrain che il PCI utilizzerà sempre nei confronti di ogni esperienza politica che si colloca alla sua sinistra e a cui verrà sistematicamente rivolto il sospettoso “chi vi paga?”, nell’assurda convinzione che ogni evento che scompagina i piani di “via della Botteghe oscure” sia da inscrivere nel quadro di diabolici piani del nemico; un nemico, peraltro, che è diventato sempre più inafferrabile da quando il PCI ha deciso di costruire una vera e propria alleanza con il partito euro-atlantico per eccellenza, il partito clerical-fascista – come ebbe a definirlo Pier Paolo Pasolini –, il partito del padronato: in una parola, la DC.
Le cose ovviamente non stanno come pensano il «Corriere della Sera» e «l’Unità». Certo, dal ‘68 in poi si sono prodotte grandi trasformazioni urbane, sociali e culturali, ma la nuova epoca ha fatto emergere nuovi soggetti che non sono per nulla “contadini [50] metropolitani” de-politicizzati dediti ad atti vandalici come forma di auto-intrattenimento, sebbene non si possa negare che questi soggetti tendano a muoversi in maniera decisamente inconsueta
«Soggettività complesse, generate dalla crisi, che oscillano tra «ribellismo anarchicheggiante, ideologia controculturale» e capacità di generare ricomposizione. Precari, operai, donne, disoccupati, studenti… Hanno liberato spazi per farne Centri del proletariato giovanile. Traducono il «vogliamo tutto» della Fiat nel «prendiamo tutto». Dove? Ovunque. Al cinematografo come ai concerti. Nel deserto dell’hinterland e nelle strade di lusso. Al supermercato o nei bei negozi» (DE LORENZIS, GUIZZARDI, MITA [2008] pag. 44)
Si colloca qui un elemento di scontro radicale tra i movimenti antagonisti e le politiche di austerità imposte dal Governo, soprattutto a partire dalla crisi petrolifera del 1973; questi nuovi movimenti sociali si oppongono alle politiche di austerità che denunciano essere imposte, come sempre, sulle spalle dei proletari in modo tale da mantenere alti i saggi del profitto capitalistico anche nelle situazioni di stagnazione o crisi. In sostanza, dicono questi movimenti, che siano i padroni a tirare la cinghia (anche se ovviamente non si mantengono alti i profitti rinunciando ad una parte dei profitti).
Il volantino che convoca l’appuntamento del 7 dicembre recita
«Uno stipendio per una poltrona. Con la prima alla scala la borghesia milanese inaugura un nuovo anno di sacrifici per i proletari. L’incasso della prima agli organismi di base. A chi ci nega il diritto alla vita noi negheremo la prima della scala. I giovani rifiutano i sacrifici» (LA FATA [2008])
Il 1976 è un anno importante in cui i movimenti antagonisti fanno un salto di qualità a tutti i livelli: si prepara il grande movimento del ‘77, ma è anche l’anno della prima esecuzione volontaria delle Brigate Rosse, quella del Procuratore Generale di Genova, Francesco Coco. Dal punto di vista degli autoriduttori è l’anno in cui “implode” il Festival di «Re Nudo» al Parco Lambro (con le autoriduzioni che dilagano persino ai festival promossi dagli autoriduttori, si potrebbe dire). Inevitabilmente, il discorso sull’austerità viene integralmente rispedito al mittente.
Il problema è che di lì a poco anche il PCI aderirà al discorso sull’austerità. Nel suo intervento conclusivo del Convegno degli intellettuali del 15 gennaio del 1977 [51] Enrico Berlinguer propone una riflessione sull’austerità che oggi qualcuno definisce “decrescista” [52] e che in quel momento prende alla sprovvista la stessa base del PCI la quale si domanda perché a tirare la cinghia per volontà dovrebbero essere proprio quelli che l’hanno sempre tirata per necessità. Ovviamente anche la posizione del PCI si scontra frontalmente con il discorso autoriduzionista, tanto se declinato in relazione ai beni di “prima necessità”, quanto se declinato in relazione ai beni “superflui”.
Il discorso sull’austerità di Berlinguer è importante; aldilà della giustificazione a tutta prima solidaristica e dal tono cattolicheggiante (togliamoci qualcosa di bocca per darlo a chi ha bisogno) in realtà non fa altro che esprimere la concreta disponibilità del PCI a convergere con le richieste di “moderazione salariale” che il capitale rivolge al lavoro nel momento in cui sta per sviluppare una profonda ristrutturazione che trasformerà radicalmente il panorama industriale e produttivo italiano. Questa disponibilità del PCI si concretizza platealmente nel gennaio del 1978 quando Luciano Lama, Segretario Generale della CGIL, espone in una celebre intervista a «la Repubblica» il programma di resa del sindacato
«Che la politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, i miglioramenti che si potranno chiedere dovranno essere scaglionati nell’arco dei tre anni di durata dei contratti collettivi, l’intero meccanismo della Cassa integrazione dovrà essere rivisto da cima a fondo. Noi non possiamo più obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive, né possiamo continuare a pretendere che la Cassa integrazione assista in via permanente i lavoratori eccedenti. Nel nostro documento si stabilisce che la Cassa assista i lavoratori per un anno e non oltre, salvo casi eccezionalissimi che debbono essere decisi di volta in volta dalle commissioni regionali di collocamento (delle quali fanno parte, oltre al sindacato, anche i datori di lavoro, le regioni, i comuni capoluogo). Insomma: mobilità effettiva della manodopera e fine del sistema del lavoro assistito in permanenza» [53]
Dalle parole di Lama emerge anche una interpretazione nuova del ruolo che il sindacato deve assumere nella società italiana: da organizzazione di parte dei lavoratori il sindacato deve trasformarsi (e si trasformerà, in effetti) in organizzazione “istituzionale” che ambisce a concertare con le organizzazioni datoriali le linee generali di politica economica e sociale che il Governo è incaricato di assumere. Si tratta del primo passo di un percorso che condurrà, all’inizio degli anni ‘90, dopo il terremoto politico-giudiziario del 1992 e soprattutto dopo il crollo dell’URSS che di quel terremoto è il fattore scatenante, a quella che è stata definita l’“era della concertazione” che tanto male ha fatto alle condizioni materiali dei lavoratori (a cominciare dall’abolizione della “scala mobile” con il terribile accordo del 31 luglio 1992, siglato a fabbriche chiuse).
Per essere sicuro di essere stato ben compreso Luciano Lama rincara la dose
«se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni degli operai occupati deve passare in seconda linea”» (Ibidem)
Questa dichiarazione di Lama può essere interpretata molto semplicemente: che siano i lavoratori a sobbarcarsi il peso economico dei disoccupati che le imprese produrranno attraverso l’innovazione tecnologica e le delocalizzazioni.
In questo quadro di “solidarietà nazionale” per far fare sacrifici ai lavoratori (che peraltro affonda le sue radici nell’idea di “compromesso storico” avanzata nel 1973 da Berlinguer [54]) non può certo stupire che DC, PCI e i rispettivi giornali bollino gli autoriduttori come “scrocconi” e “portoghesi”. In realtà ciò che anima il discorso politico sulle autoriduzioni non dettato dalla volontà di consumare senza pagare, ma piuttosto dalla critica radicale di un sistema di consumi fondato sull’iniqua ripartizione della ricchezza che viene espropriata a chi la produce e appropriata da chi non la produce. Per questa ragione spesso le autoriduzioni vengono viste anche come ri-appropriazione – e per questo uno degli slogan più diffusi degli autoriduttori ai concerti fu “riprendiamoci la musica” ovvero riprendiamoci qualcosa di nostro che ci è stato sottratto –.
Ma “sul piatto” non ci sono solo le autoriduzioni. La strategia di avvicinamento del PCI al Governo del paese prevede la “non belligeranza” nei confronti dell’avversario di sempre, la DC; questa strategia politica – che viene definita “compromesso storico” e sembrerà sul punto di dissolversi nella primavera del 1978 – spinge il principale partito della sinistra ad adottare un atteggiamento ultra-legalitario che prevede non solo la condanna assoluta e senza appello, ma persino il disconoscimento politico delle azioni di autoriduzione, così come di ogni altra iniziativa che non rientra nello schema di pace sociale che PCI e CGIL stanno concordando con la DC e il sistema delle imprese, anche quando le iniziative provengono dalla sua stessa base giovanile e sindacale.
Lo scontro tra i movimenti antagonisti e il PCI dilaga a tutto campo e culmina, dal punto di vista simbolico, con la cacciata di Luciano Lama dall’Università di Roma La Sapienza, nel febbraio del 1977. PCI e CGIL sono accusati dagli studenti di non aver opposto resistenza all’iter parlamentare della Riforma Malfatti e anche di altre posizioni di non opposizione al Governo Andreotti; ma il punto chiave è tutto riassunto nella citata intervista di Lama che viene interpretata, non a torto, come la definitiva adesione della sinistra istituzionale agli interessi delle imprese.
Altre fortissime tensioni tra extra-parlamentari e PCI esplodono pochi giorni dopo, a Bologna, dopo l’assassinio del militante di Lotta Continua Francesco Lorusso e gli scontri che ne seguono ai quali il PCI risponde con una manifestazione “contro la violenza” promossa assieme alla DC a difesa dell’operato della polizia nonostante questa abbia sparato numerosissimi colpi d’arma da fuoco contro i manifestanti e il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga abbia disposto persino l’uso dei carri armati per il servizio di ordine pubblico.
A quel punto lo scontro sulle iniziative di autoriduzione diventa un problema secondario.
Note
[43] «l’Unità», 6 ottobre 1972.
[44] «l’Unità», 8 aprile 1973.
[45] «l’Unità», 16 maggio 1973.
[46] «l’Unità», Sei arresti dopo l’irruzione negli uffici Enel. Tra gli autonomi autoriduttori anche un impiegato “ammalato”, 6 novembre 1980, pag. 16.
[47] «l’Unità», Gazzarra durante un concerto di Branduardi. Ore di scontri a Salerno tra autoriduttori e polizia, venerdì 24 febbraio 1978, pag. 5.
[48] Corriere della Sera, Jacquerie senza bandiere, 8 dicembre 1976. Si potrebbe comunque commentare che i contadini avevano mille ragioni per incendiare castelli e castellani anche quando tali incendi si presentavano come “semplice” sfogo della rabbia accumulata per decenni, senza alcuna progettualità storica alternativa.
[49] «l’Unità», 8 dicembre 1976.
[50] Se vogliamo usare l’analogia usata dal «Corriere della Sera».
[51] Enrico Berlinguer, Austerità: occasione per trasformare l’Italia, Discorso al Teatro Eliseo di Roma, 1977. Cfr. E. Berlinguer, La via dell’austerità. Per un nuovo modello di sviluppo, Edizioni dell’Asino, Roma 2010 cit. in Giovanni Tonella, Il discorso di Berlinguer: il “Convegno degli intellettuali” del 1977, in «Pandora Rivista», 16 gennaio 2021.
[52] Il più noto esponente del pensiero della “decrescita felice”, Serge Latouche, ospita nella collana da lui diretta per Jaca Book – Precursori della decrescita – il libro di Giulio Marcon che legge il discorso di Berlinguer proprio in quella chiave (MARCON [2014]).
[53] «la Repubblica», 24 gennaio 1978, I sacrifici che chiediamo agli operai. Intervista a Luciano Lama.
[54] “La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano” (BERLINGUER [1973]).



