Antiper | Sulla differenza tra plusvalore e profitto
Come è noto una delle grandi acquisizioni scientifiche di Marx, sviluppata nel primo libro del Capitale, riguarda il meccanismo che permette al capitalista di appropriarsi di plusvalore attraverso il mancato pagamento di una quota di tempo di lavoro che Marx chiama pluslavoro.
Alla fine del processo produttivo il plusvalore è ancora ingabbiato all’interno di una merce; per estrarre questo plusvalore-merce serve il passaggio della cosiddetta “realizzazione”: la merce deve essere venduta, monetizzata, trasformata in plusvalore-denaro e il plusvalore deve essere trasformato in profitto.
Possiamo dunque dire che il profitto è la versione realizzata del plusvalore, è plusvalore in atto (e che dunque il plusvalore è profitto in potenza).
Possiamo anche dire che il plusvalore è la forma transitoria e necessaria dell’accumulazione di capitale. Certo, esiste anche un forma di accumulazione diretta, di tipo esclusivamente “finanziario”, che non prevede il passaggio attraverso la forma-merce intermedia (con la simbologia di Marx, D-D’).
Ma dove non esiste lavoro non esiste creazione di (plus) valore. Esiste passaggio di mano del valore (qualcuno prende perché qualcuno perde) o cambiamento di valore del denaro (diciamo meglio, cambiamento della “capacità del denaro di rappresentare valore”, come quando certe banche centrali stampano molto denaro per coprire i “buffi” delle istituzioni finanziarie di cui sono le protettrici e in questo modo inflazionano il mercato di moneta).
Certo, sarebbe bello se dal nulla nascesse la ricchezza: i poveri potrebbero – senza far nulla, appunto – smettere di essere poveri e diventare più ricchi dei ricchi. Sarebbe “tre volte Natale e festa tutto l’anno”.
E’ inoltre importante sottolineare che l’obbiettivo del capitalista non è tanto quello della semplice produzione di plusvalore, ma piuttosto quello della realizzazione di profitto. E infatti la crisi, per quanto spesso rigenerativa della profittabilità, è comunque una calamità per i capitali specifici che ne sono investiti (sebbene, ovviamente, lo sia molto di più per i lavoratori) in quanto determina la distruzione di grandi quote di valore e di plusvalore.
Naturalmente dalla crisi si può cercare di uscire attraverso la distruzione del capitale di qualcun altro; con le buone ma anche con le cattive, se necessario, attraverso la guerra: finanziaria, commerciale, ideologica, cibernetica, culturale… e, in ultima istanza, militare perché in definitiva i rapporti di forza è con la forza che si forgiano.