Gunther Anders | La conversazione con Manfred Bissinger
Bissinger: Dopo la supercatastrofe di Chernobyl il mondo è tornato di nuovo all’ordine del giorno, e in esso l’atomo sta ancora al primo punto. Di presa di distanza parlano e pensano ancora soltanto gli oppositori, quelli che ormai da sempre l’hanno fatto. Lei, Gunther Anders, è senza dubbio uno dei loro padri spirituali. Si aspettava qualcosa di più dallo choc di Chernobyl?
Anders: È nostro compito – e io ho cercato di adempiere a tale compito – è necessario dare a questo choc una “nota d’eternità”. Non dobbiamo stancarci di dire alla gente: badate, qualcosa del genere può sempre accadere di nuovo. E ciò, non solo perché la tecnica russa sia inferiore a quella dell’Europa occidentale o a quella americana. Anche in Occidente sono già andate storte molte cose, e ciò può ripetersi in qualsiasi momento, e specialmente in Francia, che è disseminata delle più svariate installazioni nucleari. Io sono dell’avviso di fare di Chernobyl – benché ciò possa suonare alquanto cinico – un simbolo, allo stesso modo di Hiroshima, come io per lo meno ho cercato di fare. Era assolutamente fondato il fatto che, a mia insaputa, dal mio slogan “Hiroshima è dappertutto” [1] sia stata coniata la frase “Chernobyl è dappertutto” Questa seconda frase ha perfino un senso più forte della prima. “Hiroshima è dappertutto” voleva dire: “quel che è successo a Hiroshima, può succedere anche in qualsiasi altro luogo del globo”. “Chernobyl è dappertutto” vuol dire invece: se in un singolo luogo come Chernobyl accade una disgrazia, allora questa può co-accadere dappertutto, cioè può raggiungere tutti i punti della Terra. Quindi in un certo qual modo si trasforma in una “epidemia”.
B.: Di sicuro c’è molta gente che si è svegliata a causa di Chernobyl. Solo che questo non ha portato a nessuna conseguenza.
A.: Riguardo a ciò, purtroppo Lei ha ragione.
B.: Questo l’ha amareggiato?
A.: “Amareggiato” non è l’espressione giusta. Ciò mi ha sconcertato. L’incomprensione, anche di persone intelligenti, è per me quasi incomprensibile. E a quelle appartiene anche un Franz Joseph Strau?, che di solito è non poco intelligente, anzi per esempio è molto più intelligente di Reagan. Strau? ha pur sempre imparato qualcosa al tempo del liceo. Reagan al contrario è cosi poco intelligente, che da lui non ci si può aspettare e non si può pretendere che capisca l’enormità dell’attuale situazione. E anche i politici di qui fino ad oggi non hanno capito che cosa stia succedendo. Per esempio, essi continuano ancora a parlare dell’ovvio rispetto della “sacralità dei confini”, sebbene alla radiazione nucleare non importi un fico secco se contamina un territorio che appartiene alla Cina, al Giappone, alla Russia sovietica o all’Europa. Che la fisica e la tecnica possano far traballare le categorie del diritto statuale, a quelli non passa neanche per l’anticamera del cervello.
B.: Lei una volta ha definito le centrali nucleari strumenti d’omicidio. Ogni anno capitano centinaia d’incidenti…
A.: … che poi vengono occultati e minimizzati…
B.: … ma cosa dobbiamo fare di più, per farci ascoltare?
A.: Ebbene, per prima cosa – e questo potrebbe forse spaventarla, o forse no – voglio dichiarare: sebbene io molto spesso venga considerato un pacifista, sono giunto alla convinzione che con la nonviolenza non si possa ottenere più nulla. La rinuncia ad agire, è un agire insufficiente.
B.: E’ questa una nuova convinzione?
A.: Da Chernobyl in poi tutto si è fatto più chiaro. Proprio in questi tempi sto scrivendo un libro che s’intitola Stato di necessità e legittima e difesa. In effetti ci troviamo in una situazione – e nessuno può veramente contestarlo – che giuridicamente può, anzi deve essere considerata come “stato di necessità”. Milioni di persone, l’intera vita sulla Terra e quindi anche la vita futura, sono minacciate di morte. Non da gente che desidera uccidere persone direttamente, bensì da gente che ne accetta il rischio, e che riesce a pensare solo in termini tecnici e quantitativi…
B.: … o appunto economici…
A.: … naturalmente. Economici e affaristici. Insomma noi ci troviamo in una situazione che, giuridicamente parlando, è uno “stato di necessità”. In tutti i codici, compreso quello di Diritto Canonico, in una situazione di stato di necessità la violenza non solo è permessa, ma è raccomandata. Per esempio nel paragrafo 53,1-3 del Codice penale tedesco. Ciò va spiegato ai propri simili: non è possibile opporre una resistenza efficace attraverso metodi affettuosi come la consegna di mazzetti di nontiscordardimé, che i poliziotti non possono neppure prendere perché tengono in mano i manganelli. Altrettanto inadeguato, anzi insensato, è digiunare per la pace atomica. Questo produce un effetto soltanto nel digiunatore, cioè la fame; e forse la buona coscienza d’aver “fatto” qualcosa. Ai Reagan e alla lobby atomica, però, non importa nulla se noi mangiamo un panino al prosciutto in più o in meno. Tutte queste cose sono veramente soltanto “happenings”. Oggi le nostre pretese azioni politiche sono infatti spaventosamente simili a quelle azioni -apparenza che andavano di moda negli anni ‘60. Anche quelle indugiavano già (o ancora) tra il sembrare e l’essere, e certamente quelli che conducevano tali azioni credevano di aver oltrepassato il limite della pura teoria, ma in verità restavano “actores” soltanto nel senso di “attori”. Facevano solamente teatro. E in verità perché essi avevano paura del vero agire. Effettivamente non suscitavano nessuna esplosione, ma solamente uno choc che doveva essere perfino goduto. Il teatro e la nonviolenza sono parenti stretti.
B.: Lei difende la violenza, signor Anders, potrebbe precisare che cosa intende con questo?
A.: Oh, sì! Certo che potrei farlo. Ma non lo farò dettagliatamente, poiché Lei altrimenti potrebbe mettersi nei pasticci con la sua pubblicazione. Ad ogni modo, io ritengo indispensabile intimidire coloro che detengono il potere e minacciano noi (un “noi” di milioni). In questo caso non ci resta altro che restituire la minaccia e rendere innocui quei politici che incoscientemente accettano il rischio della catastrofe. Già la semplice minaccia potrebbe forse, speriamo, avere un effetto intimidatorio. Del resto già uno si è definito “spada”, e nessun cristiano avrebbe l’audacia di chiamarlo “facinoroso”.
B.: Che cosa consiglia ai giovani che cominciano appena adesso a capire quel che può significare la catastrofe atomica? Che cosa possono fare?
A.: È questa la domanda cruciale: la violenza non solo è permessa, ma è anche moralmente legittimata fintanto che essa viene usata dal potere costituito. Del resto il potere stesso, da sempre, si fonda sulla possibilità di esercitare la violenza. Nel 1939 fu ovvio per chiunque compartecipare alla guerra e “codiventare violento”; se in quel caso si fu “co-involti”, si è fatto “soltanto il proprio dovere”, come sottolinea volentieri un certo presidente. Su ordine del potere non solo si può essere violenti, ma perfino si deve e si è obbligati ad esserlo. A noi uomini di oggi invece – che non siamo interessati ad altro che ad impedire definitivamente ogni violenza – ci viene rimproverato anche il solo fatto di pensare all’uso della violenza; sebbene in verità, quando noi la prendiamo in considerazione, non miriamo a nient’altro che alla situazione della nonviolenza, cioè alla situazione che Kant ha definito “pace perpetua”. Una cosa è certa: per noi la violenza non può mai essere un fine. Ma non v’è dubbio che la violenza debba essere il nostro metodo, se col suo aiuto e soltanto col suo aiuto può affermarsi la nonviolenza.
B.: Con riflessioni di questo genere la etichetteranno ben presto come “facinoroso”.
A.: Probabilmente si ha qualche scrupolo a definirmi così. Un uomo che ha pur sempre scritto dei libri, non può essere facilmente chiamato cosi. Ma mi starebbe bene, se per esempio Strau? si rendesse ridicolo dichiarando: “G?nther Anders è un facinoroso”.
B.: A Lei venne consegnato il Premio Adorno dall’allora sindaco conservatore di Francoforte, e poi Ministro dell’Ecologia della Repubblica Federale, Walter Wallmann. Sull’attestato si dice di Lei: “Se la nostra sopravvivenza è all’ordine del giorno, allora diventano necessari libri come quelli di Gunther Anders, che allargano e rafforzano la consapevolezza che forse abbiamo raggiunto i limiti della nostra esistenza. Da una simile conoscenza il singolo potrebbe riuscire a trovare la forza di resistere alla fine emergente”.
A.: Kohl inorridirà, e forse resterà interdetto quando lo leggerà.
B.: Lei si sente per questo ancora più legittimato a riflettere su “Stato di necessità e legittima difesa”?
A.: A causa sua? Per scrivere, io non ho bisogno di alcuna legittimazione da parte di uomini à la Wallmann, anche se loro su di me si esprimono in questi termini.
B.: Su quell’attestato ho trovato anche un’altra citazione. Qui Wallmann ha affermato: “Noi onoriamo lo scrittore Anders, perché ci contraddice, perché ci ammonisce, perché ci scuote”. Non è un bel po’ flessibile il signor Wallmann?
A.: Non lo si può definire affatto “flessibile”. Un materiale per poter essere flessibile, deve possedere già una pur minima solidità. Si tratta di purissimo semolino. E il semolino non si può certo considerarlo “flessibile”.
B.: Signor Anders, i nostri politici confidano nella sicurezza della tecnica. Ma ci è consentito impegolarci in una discussione del genere?
A.: La pericolosità è indiscutibile; e la convinzione secondo cui basterebbe stringere un po’ il bullone 3A perché l’assoluta sicurezza sia già garantita, è tanto stupida quanto incosciente. Sempre e ovunque si danno infiniti possibili guasti. Tanto meno dobbiamo impegolarci in compromessi tipo quelli che ora sono stati nuovamente proposti in Islanda: tanti e tanti missili di meno. I missili che poi restano sono comunque ancora sufficienti a far fuori l’intera umanità. L’epoca del comparativo è finita. Se con una piccola bomba si è potuto uccidere i 140.000 abitanti di Hiroshima, cosi oggi si può ancora sempre sterminare, se solo si usasse la decima parte dei missili a disposizione, l’intera umanità, e perfino per più volte. Gli americani sono fissati con il comparativo: “Noi dobbiamo essere migliori e più forti, dobbiamo poter uccidere meglio degli altri”. Oltretutto essi possono già uccidere perfettamente. E, precisamente, possono ucciderci tutti.
B.: Lei dice che dopo Chernobyl c’è una nuova qualità di resistenza. Che cosa devono fare coloro che hanno semplicemente paura?
A.: Quello della paura, è un problema difficile. La maggioranza della gente ha paura della paura e considera pericolosi solo gli allarmisti convinti, come me. E per quanto concerne quelli già consapevoli a metà, quando si radunano a migliaia, dimenticano che si sono radunati per aver paura insieme e per poter fare qualcosa contro quelli che mettono paura. Poiché, infatti, non appena si trovano insieme in centomila, automaticamente ne scaturisce una divertente festa popolare. Allora ci sono salsicce, Chernobyl con salsicce. E poi vengono le chitarre. E dove quelle cominciano, là comincia anche la scemenza emotiva. La maggior parte dei suonatori di chitarra si serve infatti solo di tre accordi, che gli ascoltatori o gli accompagnatori banalizzano a tal punto, da non essere più capaci di sentire veramente la mostruosità che li ha fatti convenire in quel luogo. Ma a parte questo: quando migliaia di persone si radunano, allora aumenta automaticamente il coraggio. Nella mischia in cui essi sguazzano, ben presto dimenticano che c’è Chernobyl e che Chernobyl domani può essere qui. Oltretutto è qui già ora: la contaminazione radioattiva, infatti, è attiva già oggi e resterà attiva per un tempo incredibilmente lungo.
B.: Le conseguenze sociali dello stato atomico sono terrorizzanti. Intere regioni devono essere chiuse per motivi di sicurezza. Gli operai e gli impiegati dei complessi nucleari devono continuamente vivere sotto controllo e sotto sorveglianza. In caso di trasporti nucleari le strade devono essere sbarrate. I servizi segreti hanno congiunture atomiche…
A.: … quel che abbiamo “conseguito” è già lo stato totalitario. Esso però vuol farci credere – poiché l’autonegazione del proprio carattere è la sua caratteristica – che i suoi provvedimenti sono gli inevitabili mezzi per la salvezza della “libertà”, per quel che questa tormentatissima parola possa ancora significare. Invece i provvedimenti sono naturalmente quelli della totale rapina della libertà. Il termine di Jungk “stato atomico” è legittimo. La domanda “Che ne sarà del nostro stato?” in effetti è già in ritardo, dato che esso è già diventato “totalitario” (un’evidenza che naturalmente esso – ciò appartiene alla sua essenza – nasconde o contesta). Uno dei simboli di questo stato atomico è certamente il vostro signor Zimmermann [2]. Quello, tra l’altro, mi voleva…
B.: … che cosa voleva?
A.: Ricompensarmi.
B.: Lui? Perché? E con che cosa?
A.: Con 10.000 Marchi. Per la mia “promozione della cultura tedescoorientale”. Questo è il premio della “Associazione artistica di Esslingen”, una federazione tedesca di Sudeti e di altre vittime dell’aggressione dell’Est. Chiaramente, l’organizzazione è finanziata dal Ministero degli Interni. Ad ogni modo Zimmermann in persona doveva consegnarmi l’assegno a D?sseldorf.
B.: A Lei? Questo deve chiarircelo più esattamente.
A.: A me, perché sono nato a Breslau. Insomma sono della Slesia. Quindi, nel 1945 sono fuggito di fronte alla melmosa marea rossa. E dato che mi sono fatto una certa reputazione, allora sono uno di quelli di cui la cultura tedesco-orientale può andar fiera. Tutte sciocchezze. I miei genitori erano di Berlino. Avevamo lasciato Breslau nel 1915, e dalla Germania sono fuggito già nel 1933. Da Hitler. Non da quelli che nel 1945 arrivarono in Slesia a causa sua. L’ignoranza in base alla quale la gente cercava di onorarmi sarebbe stata davvero degna di qualcosa di meglio. Ho differito a lungo il mio rifiuto, per poterlo comunicare alla vigilia dell’incontro slesiano. I bramosi di onorificenze a quel punto se ne stavano là seduti e non avrebbero potuto sbarazzarsi dei loro 10.000 Marchi, se non fosse comparso un altro slesiano più coraggioso, il quale prese il mio posto come secondo piazzato e accettò impreparato il denaro. A lui – non conosco il suo nome – ben gli sta! A me certo non sarebbe spettato. Poiché infatti se nel 1933 non fossi fuggito, nel 1945 sarei rimasto come cenere sui campi di Auschwitz o di Maidanek., e pertanto sarei stato davvero incapace di promuovere in Occidente la cultura tedesco-orientale. In poche parole: si può salvare il proprio onore solamente rifiutando gli onori di quelli che non sono degni di onorare qualcuno.
B.: Nella metà dei discorsi dei politici della Repubblica Federale sentiamo dire che viviamo nello stato più libero che ci sia mai stato in Germania. Ebbene, lei è uno che ha conosciuto già parecchi stati tedeschi…
A.: … Neanche per sogno “stato libero”! I cittadini della Repubblica Federale sono molto meno liberi di quanto essi stessi credano. Cosi, per esempio la maggior parte degli uomini di stato della Germania Federale si comporta tanto liberamente nei confronti di Reagan, quanto lo era stato Laval nei confronti di Hitler. Liberi? Essi si sono assolutamente adeguati all’occupante del loro territorio. Sissignore: occupante. Gli americani si possono chiamare davvero così, dal momento che l’accesso e la disposizione delle installazioni dei missili atomici spetta esclusivamente a loro. La sovranità della Repubblica Federale (RFI`) non c’è mai stata.
B.: Ma non viviamo in uno stato democratico?
A.: Io contesto – e questo l’ho dimostrato per esteso già 30 anni fa nel primo volume de L’Uomo è antiquato – che dopo la vittoria dei mass media ci sia ancora democrazia. Per la democrazia è essenziale che si possa avere una propria opinione, e che la si possa esprimere. Per esempio in America, dove ho vissuto per quattordici anni, non ho mai potuto esprimerla. Da quando ci sono i mass media e da quando i popoli del mondo siedono confinati davanti al televisore, vengono imboccati d’opinione. L’espressione “avere una propria opinione” non ha più senso. Gli imbeccati non hanno affatto la possibilità d’avere una propria opinione. No, essi non riescono neppure a consumare le opinioni altrui. Vengono ingozzati. Oche ingozzate non “consumano”, e la televisione è appunto una maniera di essere ingozzati. O no? Se, come comunemente si pensa, la democrazia consiste nel disporre del diritto di esprimere una propria opinione, allora la democrazia è stata resa impossibile dai mass media; poiché ciò che non si ha come proprio, non si può neppure esprimerlo.
B.: La intendo bene? Lei vuole combattere anche contro i media?
A.: L’uomo non è più un essere “maggiorenne” [3] (non più) che possa esprimere con la propria bocca una propria opinione. Egli è molto più un essere “succubo” [4], il quale in effetti “ascolta”, sempre e soltanto; e, più precisamente, ascolta quello che gli viene somministrato attraverso la radio e la televisione, ma su cui lui – la relazione rimane unilaterale – non può rispondere. Questa “condizione di succubo” si caratterizza per la non libertà che l’uomo ha prodotto attraverso la propria tecnica, e della quale poi egli stesso diventa vittima. Il modo di dire, secondo cui l’uomo sarebbe “maggiorenne” oggi è falso; poiché nessuna persona che sieda davanti alla radio o alla TV e che dipenda da questi apparecchi, apre più bocca. Noi siamo esseri “d’occhio” e “d’orecchio”, e non maggiorenni.
Con i mass media si è inventato anche l’”eremita di massa” [5]. Costui siede isolato davanti alla sua radio o al suo televisore, e tuttavia riceve il medesimo mangime uditivo e visivo degli altri. In breve: non si accorge che ciò che egli consuma solipsisticamente è il pasto comune di milioni di persone; e crede, nella misura in cui egli si spreme le meningi al riguardo – cosa che difficilmente accade – di essere “lui stesso” e un “se stesso”.
B.: Quello dei media, non è anche un problema di linguaggio? Il linguaggio dell’era industriale vuole occultare. Noi diciamo “zone di smaltimento”10, “rischio di scorie”, “commissione per la protezione dalle radiazioni”. Non abbiamo bisogno anche di un altro linguaggio?
A.: Ad ogni modo noi dobbiamo continuamente smascherare i vocaboli. Proprio la critica del linguaggio dovrebbe diventare la materia principale delle lezioni. Ma quale insegnante sa far questo? Chi insegna questo agli insegnanti?
B.: C’è veramente un diritto all’inversione di rotta? Un suo collega, Carl Friedrich von Weizsäcker, che per molti anni ha legittimato l’energia atomica, adesso cerca di svignarsela alla chetichella. Dovremmo sollevarlo dalla propria responsabilità?
A.: Il numero di quelli che possono parlare sensatamente in una tale situazione è così piccolo, che persino lui, che si è reso ridicolo con la costruzione di un bunker privato, deve restarci accanto. La situazione di noi tutti è troppo seria, perché si possa personalizzarne la lotta. Si devono combattere i propri veri nemici, cioè le persone che sono veramente pericolose.
B.: Che cosa dice Lei riguardo alla tesi secondo cui all’uomo non si deve togliere la speranza? L’abbiamo scritto spesso.
A.: Io credo che speranza sia un’altra parola per viltà. Che cos’è, in definitiva, speranza? È il credere che la situazione possa diventare migliore? O è la volontà che la situazione debba diventare migliore? Ancora nessuno ha mai fatto un’analisi della speranza. Nemmeno Bloch. No, non si deve dar speranza, si deve impedire la speranza. Poiché a causa della speranza non agirà più nessuno. Chi spera lascia a qualche altra istanza il diventare meglio. Sì, che il tempo possa farsi bello, lo si può forse sperare. In ragione di ciò, il tempo non si fa più bello; ma neanche più brutto. Ma in una situazione in cui vale solo l’agire in prima persona, “speranza” è solo la parola per la rinuncia ad una propria azione.