Antiper | Chiose a Emiliano Brancaccio, “Uscire dall’euro? C’è modo e modo”
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Chiose [1] di Antiper (testo rosso)
Il tentativo di salvare la moneta unica a colpi di deflazione salariale nei paesi periferici dell’Unione potrebbe esser destinato al fallimento.
Brancaccio sembra attribuire la “deflazione salariale” (cioè la diminuzione dei salari che sta avvenendo nei “paesi periferici”) al tentativo di “salvare la moneta unica”. Ma qui sorge subito una prima questione: la politica della riduzione dei salari è davvero una novità dovuta alla “moneta unica” (ed al tentativo del suo salvataggio)? Nei paesi in cui non vige questa questa “moneta unica” (leggi Gran Bretagna o USA) la deflazione salariale non si è realizzata?
Ovviamente le cose non stanno in questo modo. La riduzione del salario è infatti un obbiettivo permanente di ogni capitalista visto che minore è la quota salari pagata e maggiore è la quota profitti incassata; e del resto, in Italia, la “politica dei redditi” – come fu eufemisticamente battezzata – ha avuto anche l’imprimatur della sinistra istituzionale e del sindacato di regime fin dalla lontana “svolta dell’EUR” del 1978: da lì in poi, imprese, sindacati e governi si sono coordinati neo-corporativisticamente per impedire l’aumento del salario dei lavoratori italiani che infatti è, oggi, lo stesso di 24 anni fa (nonostante la maggiore ricchezza prodotta in questi anni). La stessa “scala mobile” ovvero il meccanismo di adeguamento automatico del salario al costo della vita (e che oggi sarebbe tanto di aiuto per i lavoratori) venne introdotta soprattutto per impedire che l’aumento dei salari superasse quello dei prezzi e quindi che vi fosse una crescita della “quota salari”.
L’eventualità di una deflagrazione dell’eurozona è dunque tutt’altro che scongiurata.
Inoltre, come afferma Marcello De Cecco [2], non è affatto probabile che questo sganciamento debba derivare da una scelta dei paesi “periferici”; è molto più probabile che siano invece i paesi “centrali” a valutare l’ipotesi di quello che viene definito giornalisticamente “euro a due velocità” (ovvero, in sostanza, di una doppia moneta)
Il problema è che le modalità di sganciamento dalla moneta unica sono molteplici e ognuna ricadrebbe in modi diversi sui diversi gruppi sociali. Esistono cioè modi “di destra” e modi “di sinistra” di gestire un’eventuale uscita dall’euro.
E questo è il punto fondamentale: anche ammettendo che l’uscita dall’eurozona fosse nelle nostre possibilità (e dunque non si realizzasse attraverso quella che Brancaccio chiama deflagrazione) bisogna vedere quale tipo di uscita si realizzerebbe.
Ogni uscita ha ricadute diverse su diversi gruppi sociali, è evidente. E affinché la ricaduta possa essere a vantaggio dei lavoratori, i lavoratori devono saper esprimere una forza politica capace di determinare quella uscita-ricaduta.
Ma esiste una sinistra in grado di governare il processo?
Brancaccio è consapevole del problema e infatti si domanda se esista una sinistra che possa fare questo, lasciando però la risposta in sospeso; peccato, perché invece questa risposta è decisiva ed è, purtroppo, negativa: oggi, non esiste un movimento dei lavoratori che abbia la forza di determinare un’uscita dell’Italia dall’eurozona che si traduca in un vantaggio per gli interessi dei lavoratori. Dunque, quella fuoriuscita, “di sinistra”, dalla parte dei lavoratori, non ci può essere.
La crisi dell’Unione monetaria europea è stata interpretata in vari modi. Una chiave di lettura particolarmente feconda analizza il travaglio dell’eurozona alla luce di un conflitto irrisolto tra i capitali delle nazioni che ne fanno parte: in particolare, tra i capitali solvibili situati nei paesi “centrali” e i capitali potenzialmente insolventi situati nei paesi “periferici” dell’Unione. Tra i numerosi indicatori di questo scontro va segnalata l’accentuazione delle divergenze tra i tassi d’insolvenza.
I capitali dei paesi periferici sono sempre più insolventi (cioè hanno un tasso di fallimenti e dunque un tasso di rischio in forte crescita) dei capitali dei paesi centrali.
Stando ai dati di Credit Reform, nel 2011 in Germania le insolvenze delle imprese sono diminuite del 5,8% e in Olanda si sono ridotte del 2,9%. Al contrario, in Italia, Portogallo, Spagna e Grecia registriamo una crescita continua delle aziende dichiarate insolventi, con aumenti rispettivamente del 17, 18, 19 e 27%. Queste divaricazioni, senza precedenti, trovano ulteriori conferme nel 2012. Al divario tra i dati sulle insolvenze segue poi, logicamente, un’accelerazione dei processi di acquisizione dei capitali deboli ad opera dei più forti.
Chi parlava in tempi non sospetti di un rischio di “mezzogiornificazione” europea aveva visto giusto: nel senso che il dualismo economico che si riteneva essere un mero caso speciale, caratteristico dei soli rapporti tra Nord e Sud Italia, sembra oggi essersi elevato al rango di caso generale, rappresentativo delle relazioni tra i paesi centrali e i paesi periferici dell’intera Europa.
Stando dunque alle dinamiche in corso, in un arco di tempo non particolarmente esteso i paesi periferici dell’Unione potrebbero essere ridotti al rango di fornitori di manodopera a buon mercato o, al più, di meri azionisti di minoranza di capitali la cui testa pensante tenderà sempre più spesso a situarsi al centro del continente.
Con il termine mezzogiornificazione Brancaccio intende riferirsi al rapporto tra “paesi centrali” e “paesi periferici” che tende a diventare come quello tra Nord e Sud d’Italia, una sorta di polarizzazione tra paesi ricchi e poveri su scala europea. I paesi poveri diventano semplice “riserva di manodopera” mentre i paesi ricchi tengono in mano le redini delle decisioni. Si tratta di una cosa poi così nuova? Probabilmente no se appena si tiene conto del fatto che l’Italia è stata per decenni “riserva di manodopera”, con alti tassi di emigrazione verso altri paesi europei (Francia, Belgio, Germania…).
Nel capitalismo globale è “normale” la polarizzazione tra paesi poveri e paesi ricchi. Se vivi in un paese povero emigri in cerca di lavoro oppure, se non emigri, lavori in aziende subappaltatrici di multinazionali.
Naturalmente, sarebbe un’ingenuità teleologica considerare scontato un simile esito. Esso, infatti, incontra forti resistenze da parte delle rappresentanze politiche dei capitali periferici. Gli sviluppi dello scontro che ne consegue, tutto interno agli assetti capitalistici europei, allo stato dei fatti restano incerti. Coloro i quali tuttora sperano in una ricomposizione degli interessi con i capitali centrali dell’Unione, invocano di continuo una riforma degli assetti istituzionali europei, che riequilibri i rapporti tra i paesi membri o consenta almeno di mitigare i tremendi effetti della mezzogiornificazione delle periferie.
È in questo ambito che possiamo collocare la proposta dell’area che si richiama alla figura di Alexis Tsipras che spera in una “ricomposizione” tra capitali periferici e capitali centrali attraverso la riforma delle istituzioni europee (l’”altra Europa”).
Ma la richiesta di “riforma dell’Europa”, ovvero di allentamento delle regole di funzionamento dell’Eurozona, viene avanzata informalmente anche dai Governi “PIIGS” che non riescono più a rispettarne i parametri.
Fino a questo momento, tuttavia, si è trattato di vani auspici.
Alcuni avevano sperato che la crisi europea potesse costituire un’occasione per aprire un confronto politico sugli squilibri strutturali generati dall’attuale regime di accumulazione trainato dalla finanza privata, e sulla esigenza di sostituirlo con una moderna visione di “piano”, che conferisse ai poteri pubblici il ruolo di creatori di prima istanza di nuova occupazione.
Cosa dice in sostanza Brancaccio? Che la creazione di lavoro non deve essere affidata soprattutto al mercato (ciò che comporta la realizzazione di “riforme del mercato del lavoro” che ne abbassano i salari e le tutele sindacali), ma piuttosto allo Stato che dovrebbe essere – “keynesianamente” – creatore primario di occupazione (magari come nei primi 30 anni del dopoguerra con la DC e le cosiddette Partecipazioni Statali, ma anche con il nazismo e il fascismo, in parte con il “New Deal” di Roosvelt e, ovviamente, con l’URSS).
Il problema è che il ruolo dello Stato che non è quello di collocarsi come terzo tra due contendenti (capitalisti e lavoratori), ma quello di difendere gli interessi capitalistici (anche quando si prende in carico aziende decotte e le rimette in sesto in vista del loro successivo ri-collocamento). Di conseguenza, l’intervento diretto dello Stato in economia e la creazione diretta di posti di lavoro è possibile solo in determinate fasi (soprattutto pre o post belliche), ma non è la normalità del capitalismo (ammesso che il capitalismo abbia una “normalità”).
Anche l’idea di un piano (sia pure “moderno”) è difficile da immaginare perché il mercato capitalistico è sostanzialmente anarchico e non pianificabile (altrimenti non sarebbe un mercato capitalistico). Quello che invece può avvenire – ed infatti avviene – è che lo Stato intervenga a correggere gli inevitabili squilibri prodotti dal mercato (è uno dei presupposti del cosiddetto neo-liberismo).
Fino a questo momento, tuttavia, questi temi non hanno quasi per nulla attecchito nel dibattito europeo nemmeno a sinistra, figurarsi tra le istituzioni. A un livello più modesto, anche la speranza dei partiti progressisti di rinsaldare l’unità europea tramite l’adozione di “standard” salariali e del lavoro, è immediatamente naufragata di fronte all’opportunismo della socialdemocrazia tedesca, ostile a qualsiasi ipotesi di coordinamento europeo della contrattazione.
Che i sindacati tedeschi non vogliano una contrattazione a livello continentale può anche darsi; questo dipende soprattutto dal fatto che le condizioni sociali dei lavoratori tedeschi sono migliori di quelle dei lavoratori dei paesi PIIGS (e infatti in precedenza lo stesso Brancaccio ha parlato dei “paesi periferici” come di paesi destinati sempre più ad essere “riserve di manodopera” a basso costo). Quale consenso potrebbero avere politiche di coordinamento a carattere continentale che potrebbero condurre ad un abbassamento del livello salariale dei lavoratori tedeschi? Perché le leadership politico-istituzionali tedesche dovrebbero acconsentire al coordinamento di cui parla Brancaccio se il forte consenso tra i lavoratori derivante dalla condizioni sociali migliori è proprio uno degli elementi che rende queste leadership forti politicamente?
Ora, un coordinamento delle lotte di carattere continentale è certamente necessario, ma non è chiedendolo ai sindacati tedeschi e alle loro leadership politiche che esso può essere realizzato.
Ed ancora, persino l’auspicio minimale dei governi periferici, di mitigare la crisi finanziaria attraverso un’unione bancaria e una connessa assicurazione europea dei depositi, sembra venir meno di fronte alla opposizione dei tedeschi, intenzionati a favorire anche in campo bancario processi di centralizzazione dei capitali di tipo darwiniano.
La “centralizzazione darwiniana” non è una scelta tedesca, ma una tendenza strutturale del modo di produzione capitalistico e già Marx parlava della concentrazione e centralizzazione come fenomeni intrinseci al funzionamento del capitalismo mentre Lenin -con il suo Imperialismo –o Hilferding -con il suo Il capitale finanziario –ne descrivevano i caratteri per la fase che va da fine ‘800 a inizio ‘900.
Per quanto riguarda l’assicurazione centrale dei depositi si può dire questo: certamente i risparmi dei semplici cittadini dovrebbero essere protetti dalla speculazione (e in effetti questa “assicurazione dei depositi” c’è già e in Italia copre fino a 110 mila euro); ma se questa assicurazione viene intesa – come sembra dalle parole di Brancaccio – come un’assicurazione sul default delle banche (altrimenti non avrebbe senso il riferimento alla “centralizzazione darwiniana” in ambito bancario) allora si pongono alcuni problemi perché quello che viene suggerito altro non è, in definitiva, che il “modello AIG”. Libera “creatività” nella speculazione e poi qualcuno si accolli le insolvenze (che nel Sud Europa, come abbiamo detto, sono in netto aumento).
Se a livello “centrale” (BCE) ci si assumesse il rischio dell’eventuale default di banche “periferiche” si finirebbe per alterare il rapporto tra le varie banche europee. Ognuna di esse farebbe le operazioni più spericolate per guadagnare terreno rispetto alle altre. E figuriamoci se i tedeschi sono interessati ad usare i propri soldi per sostenere le banche concorrenti in difficoltà. Soprattutto nella crisi la logica è: cane (grande) mangia cane (piccolo). Non è una novità: è la normalità nella crisi del capitale.
Per inciso, se vogliamo usare lo schema “ricchi-poveri” (che nel campo bancario e finanziario ha poco senso) la proposta di Brancaccio si riassume nella richiesta alle banche ricche di salvare le banche povere dal fallimento e così di rinunciare a mangiarsele. È come dire al lupo di non mangiare l’agnello.
La deflazione salariale si sta rivelando inefficace
Stando così le cose, il tentativo di ricomporre il conflitto tra capitali europei resta affidato a una sola ricetta, ben delineata in questi mesi dalla Banca centrale europea: la crisi dei capitali situati nei paesi periferici, e la conseguente mezzogiornificazione delle periferie europee, potrebbero essere attenuate solo da un abbattimento dei costi del lavoro per unità di prodotto. Se cioè riducessero il costo unitario del lavoro, i paesi periferici potrebbero recuperare competitività e sarebbero quindi in grado di ridurre il loro disavanzo verso l’estero senza ricorrere alle politiche di austerità o, quanto meno, ricorrendovi in misura meno accentuata di quanto non facciano oggi
La ricetta che va per la maggiore è la seguente: abbassando i salari nei paesi periferici diminuiscono i costi di produzione delle merci le quali diventano così più “competitive”. In sostanza, i paesi periferici che adottassero questa strategia avrebbero ipoteticamente gli effetti “benefici” di una svalutazione competitiva senza averne quelli “malefici” (che vedremo più avanti). In questo modo potrebbero, in un secondo tempo, ridurre le politiche di austerity (volte alla riduzione della spesa e del debito).
Tale proposta incontra oggi molti sostenitori presso le istituzioni europee: Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del consiglio direttivo della Bce, è uno dei suoi più espliciti sostenitori. Senza dubbio, essa ha almeno il merito di chiarire che i problemi dell’eurozona riguardano soprattutto i conti esteri dei paesi membri, non i conti pubblici.
Ma qual è l’ordine di grandezza del mutamento che tale ricetta implicherebbe? Olivier Blanchard, capo economista del FMI, tempo fa cercò di stimare l’abbattimento del costo del lavoro che sarebbe necessario per rimettere in riequilibrio i conti esteri dei paesi periferici: a parità di altre condizioni, i salari nominali dovrebbero subire un crollo dal 20 al 30%. Per giunta secco, una tantum: in sostanza, l’operaio portoghese che oggi è pagato 1000 euro, da domani dovrebbe prendere 700 euro. In verità, quando la formulò per la prima volta, nel 2006, Blanchard definì «esotica» questa opzione, ritenendola politicamente inverosimile.
Blanchard ritenne “politicamente inverosimile” una riduzione dei salari dell’ordine del 20%-30%. Eppure questo è proprio lo scenario che potrebbe delinearsi per effetto di una uscita dall’eurozona “da destra”, per dirla con Brancaccio. Già nel 1992 la svalutazione competitiva attuata dopo l’uscita della lira dallo SME produsse una riduzione dei salari non compensata dalla “scala mobile” (che venne abolita proprio nel 1992 – grazie ad un accordo tra sindacati e padronato – per non vedere vanificati parte degli effetti della svalutazione). In compenso, per tenere sotto controllo gli effetti inflazionistici della svalutazione, vi fu un forte incremento del debito pubblico (qualcuno dice addirittura del 20%).
Insomma, la svalutazione fu scaricata sullo Stato attraverso l’aumento della spesa, invece che direttamente sui lavoratori. Ma oggi l’aumento della spesa è arrivato ad un livello tale che non si riescono più a pagare neppure gli interessi (dice Brancaccio, il problema non è dei conti pubblici; certo, se hai una grande crescita che compensa non è un problema, ma se non ce l’hai il problema c’è eccome).
La soluzione della sinistra è: andiamo avanti così all’infinito, aumentiamo il deficit e poi si vedrà. Oppure: usciamo dall’euro, svalutiamo la moneta, rilanciamo le esportazioni… Una sinistra che imposta tutta la propria proposta politica ed economica su manovre monetarie (esco, svaluto, rilancio…) non è forse essa stessa preda di un riflesso “monetarista di sinistra” gemello del monetarismo capitalistico che dilaga ormai dagli anni ’70 (e in particolare, se vogliamo indicare una data simbolica, dal 1971 con il “Nixon Shock” ovvero con la rottura della Golden Exchange Standard uscito dagli accordi di Bretton Woods)?
La crisi tuttavia ha reso praticabili anche le soluzioni più ardite e violente.
Ma, siamo certi che l’idea di ristabilire l’unità di classe dei capitali europei scaricando l’onere del riequilibrio sui salari avrà successo? Siamo certi cioè che la riduzione del costo del lavoro nelle periferie consentirà di ricomporre lo scontro capitalistico in atto e permetterà quindi di salvare l’attuale assetto istituzionale dell’Unione?
La riduzione del costo del lavoro è una delle controtendenze alla caduta tendenziale del saggio di profitto per cui è interesse “di classe” di ogni frazione capitalistica che essa si realizzi. Infatti, la maggiore riduzione possibile del costo del lavoro – dal punto di vista economico e politico-sociale – è un obbiettivo anche negli Stati Uniti o in India o in Brasile, non solo in Europa, e non ha nulla a che vedere con le soluzioni al problema del salvataggio dell’attuale assetto istituzionale europeo. E non riguarda solo le periferie. Anche la Germania ha potuto difendere efficacemente la sua natura esportatrice grazie a politiche di contenimento salariale piuttosto dure concordate con i sindacati tedeschi.
Per tentare di rispondere prendiamo il caso della Grecia, che presenta varie peculiarità ma che ha più volte anticipato gli andamenti di tutte le periferie dell’eurozona. Ebbene, in Grecia tra il 2008 e il 2012 si registra un calo medio dei salari monetari di tre punti percentuali, un crollo dei salari reali di diciotto punti e una caduta della quota salari di oltre quattro punti. È interessante anche notare che il salario minimo fissato dalla legge è precipitato dal 2011 a oggi del 44%, da 877 a 490 euro. Sono cadute colossali. Eppure, nonostante tali precipitazioni, e nonostante una politica di depressione dei redditi senza precedenti storici, la Grecia ha chiuso comunque il 2012 con un disavanzo verso l’estero di 3 punti percentuali in rapporto al Pil. Il paese cioè continua a importare più di quanto esporti.
La precipitazione della crisi greca insegna che il feroce tentativo di salvare l’Unione a colpi di deflazione salariale potrebbe anch’esso esser destinato al fallimento.
È certamente possibile che la deflazione non produca un miglioramento delle esportazioni anche perché la deflazione in un paese deve confrontarsi con la deflazione in altri paesi (e comunque bisogna scendere molto per essere competitivi con paesi davvero “periferici” come quelli asiatici).
Se così fosse, la scelta di uscire dall’euro e svalutare diventerebbe l’ultima carta per tentare di rimettere in equilibrio le bilance verso l’estero dei paesi periferici.
Perché la svalutazione della moneta che si pensa di re-introdurre dopo la fuoriuscita dall’euro dovrebbe essere utile per rilanciare la competitività? La svalutazione dei salari non basta (Brancaccio lo ha appena detto) e i maggiori costi derivanti dall’acquisto di materie prime con valuta di minor valore annullerebbe una parte dei minori costi derivanti dalla (già insufficiente) deflazione/svalutazione salariale.
Su una “exit strategy” dall’euro la sinistra è in ritardo
In uno scenario simile, è curioso che le sinistre insistano ancora oggi con la riduttiva litania secondo cui «fuori dall’euro sarebbe l’inferno». Come si fa cioè a non capire che il pigro affidarsi a simili espressioni apodittiche [3] vanifica qualsiasi sforzo di comprensione delle reali dinamiche in corso e accentua l’emarginazione politica di tutti gli eredi, più o meno degni e diretti, della tradizione novecentesca del movimento operaio?
Beninteso, una spiegazione raffinata della irriducibile fedeltà della sinistra alla moneta unica potrebbe risiedere nella tendenza storica delle rappresentanze del lavoro a cercare il proprio antagonista dialettico nel grande capitale, laddove invece con i piccoli capitali si fatica anche solo ad avviare una lotta per il riconoscimento.
Se i termini del discorso fossero questi, si potrebbe anche approfondire la questione. La verità del nostro tempo, tuttavia, si situa a un livello decisamente più basso: l’adesione a oltranza della sinistra all’euro costituisce oggi un mero riflesso narcisistico, una eco del tempo andato, quando la globalizzazione avanzava senza apparenti ostacoli e ci si illudeva di potere raccogliere residualmente qualche suo frutto, o anche solo qualche briciola. Con lo sguardo ancora rivolto a quella fase superata, la sinistra appare oggi più che mai fuori dal tempo storico. Anche per questo, il suo posizionamento conta allo stato attuale poco o punto negli sviluppi della crisi dell’Unione. L’eventuale deflagrazione della moneta unica e al limite la messa in discussione dello stesso mercato unico europeo dipenderanno dagli esiti di una partita tutta interna agli assetti proprietari del capitale europeo, rispetto alla quale il lavoro e le sue residue rappresentanze appaiono subalterne come non mai.
Questa è un’affermazione purtroppo condivisibile, per quanto dolorosa: il lavoro non conta nulla. Solo il capitale è in grado di decidere gli esiti della “partita”. Ma se così è allora è insensato tifare pro o contro l’euro, o pro o contro l’UE. Se l’area dell’euro si è formata è stato perché questa sembrava essere una scelta necessaria per difendere gli interessi dei capitali periferici e di quelli centrali. Se vi sarà deflagrazione o uscita dall’euro non sarà per i lamenti dei popoli (tanto meno di quello italiano che si lamenta a voce bassa per non disturbare), ma solo perché i capitali europei (centrali o periferici o entrambi) avranno cambiato opinione.
Il problema è che, al di là della grancassa mediatica favorevole all’euro, nonostante gli impegni assunti dalla Bce nella erogazione di liquidità, e considerata l’evanescenza delle decisioni finora assunte in sede europea per l’avvio di programmi di investimento pubblico nelle aree più in difficoltà, quella partita continua a svilupparsi lungo un sentiero che a lungo andare rende insostenibile l’Unione monetaria.
Il punto è: insostenibile per chi? Chi mollerà prima?
In questo scenario, possibile che le sinistre rifiutino anche solo di avviare una riflessione sulle decisioni da assumere in caso di precipitazione dell’Unione?
Perché, saranno le “sinistre” ad assumere decisioni in caso di deflagrazione? L’SPD o il PD o il PSF sono per caso, per Brancaccio, forze di sinistra?
Possibile che tuttora manchi una indicazione di massima su una exit strategy dall’euro che permetta di tutelare gli interessi del lavoro subordinato? La questione, si badi bene, è cruciale. Le modalità di abbandono di un regime di cambi fissi come l’eurozona sono infatti molteplici, e ognuna può ricadere in modi diversi sui diversi gruppi sociali.
Se è vero quello che dice Brancaccio (“Le modalità di abbandono […] sono infatti molteplici, e ognuna può ricadere in modi diversi sui diversi gruppi sociali”) – ed è vero – allora anche l’astratta richiesta di uscita dell’euro – hic et nunc – risulta inaccettabile se non riusciamo a garantire (o quanto meno a ipotizzare) un certo tipo di “abbandono”.
In altre parole: esistono modi “di destra” e modi “di sinistra” di gestire una eventuale uscita dall’euro. E la sinistra è in netto ritardo.
Da tempo chi scrive ha cercato di insistere su questo punto, in verità con scarso successo. Il dibattito italiano di politica economica sembra infatti ormai riducibile a una mera disputa tra fautori del cambio irrevocabile e sostenitori della libera fluttuazione delle monete, come se l’ordine del discorso politico potesse essere in ultima istanza ricondotto a una scelta del regime valutario.
Perfetto: l’osservazione è acuta e centrale (ancorché parziale): il problema, in effetti, non è affatto di ordine puramente valutario e quindi il problema non si risolve con una scelta di carattere prevalentemente valutario (come la fuoriuscita dall’euro e il ripristino la lira).
È del tutto evidente, anche se nessuno lo dice esplicitamente, che l’uscita dall’euro potrebbe rivelarsi una soluzione ancora peggiore del male se non fosse collegata ad un cambio politico generale cioè ad una vera e propria rottura rivoluzionaria dell’assetto economico, politico e sociale capitalistico; ma allora, in quel caso, ben difficilmente l’uscita dall’eurozona sarebbe una scelta nostra.
Eppure basterebbe dare un occhio alla letteratura degli anni Settanta del secolo scorso per capire che, almeno dal punto di vista dei rapporti sociali di produzione, la questione è molto più complessa.
Tra i fondamentali aspetti che dovrebbero essere esaminati vi sono ad esempio i cosiddetti «fire sales», come li definisce Paul Krugman; vale a dire, la possibilità che lo sganciamento dall’euro, e la conseguente svalutazione della moneta, possano determinare una caduta del valore dei capitali nazionali di tale portata da mettere le autorità di governo di fronte alla scelta tra favorire eventuali acquisizioni estere a buon mercato oppure contrastarle.
L’uscita dall’euro provocherebbe una svalutazione degli asset nazionali; le imprese italiane varrebbero di meno e potrebbero essere acquisite a buon mercato dai capitali esteri (altro che recupero della cosiddetta “sovranità”). Secondo Brancaccio, per contrastare questi acquisti bisognerebbe rompere anche il Mercato Unico Europeo cioè, di fatto, l’UE (e qui sembra avere ragione Joseph Halevi).
Si tratterebbe dunque di un retrocedere dalla globalizzazione capitalistica degli ultimi decenni. È una ipotesi plausibile? E soprattutto: perché, se chiudessimo il paese ai capitali esteri (e alle merci estere che costerebbero molto di più), i paesi esteri dovrebbero rimanere aperti ai capitali e alle merci italiane per consentirci l’agognato aumento dell’export?
Per le sue implicazioni sui rapporti di produzione, la prima soluzione può esser definita “di destra”. La seconda soluzione potrebbe invece essere annoverabile tra le strategie “di sinistra”. Quest’ultima opzione, tuttavia, richiederebbe una messa in discussione, almeno parziale, non solo della moneta unica ma anche del mercato unico europeo, con buona pace dei “liberoscambisti di sinistra”. Le cose, come si può notare, si complicano.
In effetti, si complicano.
Uscita dall’euro “di destra” o “di sinistra”: gli effetti sui salari
La questione dei fire sales è cruciale, ma le sue implicazioni non sono di immediata lettura. Per cercare di afferrare in termini più immediati le differenze tra una opzione di uscita dall’euro “da destra” e una opzione di uscita “da sinistra”, in questa sede può essere allora opportuno soffermare l’attenzione su due sole variabili: il salario reale e la quota salari. A questo proposito, vari studi hanno segnalato che l’abbandono di un cambio fisso e la conseguente svalutazione risultano spesso correlati a una riduzione del salario reale, ossia a una perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni. Tra le ricerche più influenti, è il caso di menzionare uno studio di Eichengreen e Sachs sugli effetti delle svalutazioni che si realizzarono nel corso degli anni Trenta, e un contributo di Lucas e Fallon sugli esiti delle crisi valutarie che si verificarono negli anni Novanta.
I risultati di ricerche più recenti suggeriscono tuttavia una lettura maggiormente articolata dei dati disponibili. Consideriamo nove casi di sganciamento da un cambio fisso avvenuti nell’ultimo ventennio: Finlandia, Gran Bretagna, Italia e Svezia nel 1992, Repubblica Ceca e Sud Corea nel 1997, Argentina e Turchia nel 2001. Rileviamo che in due dei nove casi alla svalutazione fa seguito un salario reale stazionario nell’anno successivo, mentre negli altri sette casi si registra una sua riduzione.
Dai dati che porta Brancaccio non emerge una situazione poi così diversa rispetto a quella relativa agli studi citati precedentemente (non è poi così “più articolata”). In generale, dopo la svalutazione ci sono riduzioni del salario, sia pure di varia entità. Per quanto riguarda l’Italia ci sarà anche stata una riduzione dei salari di un punto nel 1992, ma quello che deve essere visto è il quadro post-svalutazione degli anni successivi in cui la riduzione del salario – e soprattutto della quota salari – è stata molto più pronunciata. Non che la cosa debba imputarsi esclusivamente alla svalutazione, ovviamente. La tendenza alla riduzione del “salario sociale di classe” (come lo chiamerebbe Gianfranco Pala) è una tendenza storica di tutta questa fase (e in generale del modo di produzione capitalistico, anche se in certe fasi si evidenziano delle contro tendenze).
L’entità del calo può essere modesta, come è accaduto in Italia (meno di un punto percentuale), oppure può essere enorme, come è il caso del Messico (meno tredici punti) e dell’Argentina (meno trenta punti). Negli anni successivi gli andamenti sono piuttosto diversificati: in alcuni casi il declino perdura, in altri la ripresa è immediata. In tutti i casi tranne uno, tuttavia, dopo cinque anni dalla svalutazione i salari reali tornano ai livelli precedenti ad essa, e talvolta li superano.
Dunque, almeno per i primi 5 anni i salari cadono (per il semplice effetto della svalutazione). E come si sa, quello che è perso è perso.
Riguardo invece alla quota salari – vale a dire la quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori – l’andamento è più univoco e meno rassicurante. In tutti i casi considerati, un anno dopo la svalutazione la quota salari si riduce.
È quello che si diceva prima. La quota salari, cioè la quota della ricchezza nazionale che va ai salari, cade. Il che significa una riduzione del salario relativo e un aumento della disuguaglianza sociale. Non un bel risultato a favore dei lavoratori, insomma. Un’uscita da destra?
E in tutti i casi, tranne uno, dopo cinque anni la caduta della quota salari si fa ancora più consistente: in Svezia il calo è di due punti percentuali, in Gran Bretagna di cinque punti, in Finlandia di nove punti, addirittura in Turchia di dodici punti. Il nesso con lo sganciamento dal cambio fisso è in molti casi evidente: in Italia, per esempio, nei cinque anni precedenti alla svalutazione la quota salari rimane pressoché stazionaria, mentre nei cinque anni successivi cade di ben cinque punti percentuali.
Dal che possiamo dedurre che la svalutazione produce un innalzamento del divario tra classi ricche e classi povere. E che dire quando questo avviene in una condizione di approfondimento della crisi?
I risultati ottenuti trovano conferme ulteriori ampliando l’insieme di paesi oggetto dell’analisi. In tutti i casi emerge un ventaglio di andamenti, dipendenti da una molteplicità di fattori e non tutti facilmente decifrabili. Tali esiti aiutano tuttavia a chiarire un punto essenziale: l’effetto di un’eventuale deflagrazione della moneta unica europea sui rapporti tra le classi sociali non è univocamente determinabile.
La rottura della parità monetaria non sarà univocamente determinabile, ma è certamente abbastanza prevedibile. E del resto, la parità aurea era stata introdotta proprio per evitare che si generassero fenomeni di competizione al ribasso che avrebbe portato a fondo l’intero “sistema occidentale” la cui “concordia” era essenziale per sostenere lo scontro con l’Unione Sovietica. Secondo Karl Polanyi, questa competizione tra Stati era talmente esiziale che egli attribuiva alla rottura della parità monetaria istituita negli anni ’20 addirittura la causa principale della Seconda Guerra Mondiale. Una valutazione, quella di Polanyi, non molto condivisibile (come quella, sempre sua, che la finanza internazionale e i suoi interessi fossero alla base della pace tra le nazioni che aveva preceduto la Prima Guerra Mondiale); e non è condivisibile neppure l’accusa che su questo tenore è stata rivolta proprio a Brancaccio [4].
Così come è da ritenersi risibile l’idea, molto diffusa a sinistra, secondo cui l’abbandono dell’euro comporterebbe inesorabilmente una svalutazione di tale portata da generare un crollo verticale dei salari reali, così pure risulta infondata la tesi di chi esclude l’eventualità di un impatto negativo sui salari e sulla distribuzione del reddito. Un elemento certo tuttavia sussiste: l’uscita da un regime di cambio fisso può avere un impatto negativo o meno sul potere d’acquisto dei lavoratori e sulla distribuzione del reddito nazionale a seconda che esistano meccanismi istituzionali – scala mobile, contratti nazionali, prezzi amministrati, ecc. – in grado di agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività.
Solo correggendo attraverso “meccanismi istituzionali” la fuoriuscita non sarebbe “da destra”. Ci vorrebbero prezzi “amministrati” (ovvero “calmierati” di beni/servizi sottratti al mercato e quindi ricollocati sotto l’egida dello Stato); ci vorrebbe un meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’aumento del costo della vita (la “scala mobile”), ci vorrebbero contratti nazionali che difendano i salari e non l’attuale proliferazione di contratti, deroghe, controriforme del mercato del lavoro (Pacchetto Treu, Legge Biagi, Jobs Act). Pensare che vi siano le condizioni per realizzare tutte queste misure (ed altre) non è, anche questo, un pochino risibile?
Escludere tali meccanismi implica, in buona sostanza, un’uscita dall’euro “da destra”. Contemplarli significa predisporre un’uscita “da sinistra”.
La questione salariale e distributiva è solo un tassello degli enormi problemi che derivano dall’insostenibilità dell’attuale assetto dell’Unione europea. Cercare di affrontarla in modo fattuale ci aiuta tuttavia a uscire da una lettura estremista e manichea della fase. I dati ci dicono che fuori dall’euro non è affatto detto che vi sia un inferno peggiore di quello che già ci circonda, ma non è nemmeno scontato che si possa anche solo intravedere il sole di un nuovo avvenire.
In sostanza, conclude Brancaccio, non si sa nulla. È questo il “responso dell’economia”.
Dunque, se non si sa nulla, come si può affermare qualcosa di così decisivo come “stiamo dentro” o “stiamo fuori”? È evidente che l’approccio deve essere completamente diverso. Alla domanda: euro o non euro, questo è il problema? Rispondiamo no, non è questo il problema.
Sia come sia, il processo storico è in rapido movimento: nell’uno come nell’altro caso, il peggio che le residue rappresentanze del lavoro possono fare è restare passivamente a guardare.
Riferimenti bibliografici
Brancaccio, E. (2012). Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a European wage standard. International Journal of Political Economy, vol. 41, Number 1.
Brancaccio, E. (2013). Dibattito con Lorenzo Bini Smaghi. Facoltà di Economia “G. Fuà”, Ancona, 15 maggio.
Brancaccio, E., Passarella, M. (2012). L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa. Il Saggiatore, Milano.
Eichengreen, B., Sachs, J. (1984). “Exchange rates and economic recovery in the 1930s”. NBER Working Paper Series, n. 1498.
Fallon, P., Lucas, R.E. (2002). “The impact of financial crises on labor markets, household incomes and poverty: a review of evidence”. The World Bank Research Observer, vol. 17, n. 1.
Note
[1] Con il metodo delle chiose vogliamo commentare articoli che per un verso o l’altro ci sembrano interessanti. Si tratta certamente di un approccio meno rigoroso di quello di un documento organico, ma utile per segnalare cosa pensiamo di certe affermazioni e argomentazioni che circolano nel dibattito pubblico.
[2] Cfr. Marcello De Cecco e Fabrizio Maronta, Berlino, Roma e i dolori del giovane euro
http://www.antiper.org/mondo/neurolandia/119-berlino-roma-giovane-euro.html
[3] Forse Brancaccio voleva dire “apocalittiche” (apodittiche infatti vorrebbe dire dimostrabili)
[4] Cfr. Emiliano Brancaccio, Un timido guerrafondaio.