Tiziano Bagarolo | Uomo, natura, società nel marxismo (seconda parte)
Tratto da Tiziano Bagarolo, Marxismo ed ecologia, Nuove edizioni internazionali, 1989 (capitolo 1.2)
La critica dell’ideologia del progresso
La penetrante analisi delle
conseguenze negative del capitalismo in agricoltura e, più in generale,
l’attenzione di Marx ed Engels per il versante uomo-natura della dialettica
storica, non sono aspetti casuali e secondari: sono diretta conseguenza della
loro visione del mondo, del loro metodo d’analisi, di un’attenzione sistematica
e metodica, critica ma partecipe agli sviluppi scientifici del loro tempo. Non
solo verso quelle discipline che hanno stretta attinenza con la società (come
fu il caso dell’interesse per la nascente etnologia, e non solo per l’opera di
Morgan) ma anche verso le scienze naturali e la matematica. Le opere di Marx
sono zeppe di riferimenti alle scoperte della biologia, della chimica, dell’agronomia.
Engels si dedica per decenni a seguire e commentare gli sviluppi delle scienze
del suo tempo, riflettendo sulle implicazioni più profonde delle nuove
scoperte. Risultato di questa riflessione sono l’Anti-Dühring e la Dialettica della natura,
quest’ultima rimasta allo stato di abbozzo. L’epistolario ci offre innumerevoli
esempi della loro viva attenzione verso gli aspetti più diversi che potevano
gettare una luce sulle tendenze profonde della società moderna.
Un solo esempio: un brano della lettera di Marx ad Engels del 25 marzo 1868:
“È molto interessante il libro di Fraas (1847) Klima und Pfanzenwelt in der Zeit, eine Geschichte beider (Clima e regno vegetale nel tempo, un contributo alla storia di entrambi), per la dimostrazione che in epoca storica clima e flora cambiano. Egli è darwinista prima di Darwin e fa sorgere le specie stesse in epoca storica. Ma allo stesso tempo è agronomo. Sostiene che con la coltivazione — e secondo il grado di questa — va perduta la “umidità” tanto cara ai contadini (per questa ragione le piante migrano dal sud al nord) e subentra infine la formazione di steppe. I primi effetti della coltivazione sono utili, ma infine devastanti a causa del disboscamento, ecc. Quest’uomo è eruditissimo come filologo (ha scritto libri greci) e lo è altrettanto come chimico, agronomo, ecc. La conclusione è che la coltivazione, procedendo naturalmente e non dominata consapevolmente (a tanto non arriva naturalmente come borghese) lascia dietro di sè dei deserti. Persia, Mesopotamia, ecc., Grecia. Di nuovo quindi una inconsapevole tendenza socialista! […] Bisogna esaminare accuratamente tutte le cose recenti e recentissime sull’agricoltura. La scuola fisica si oppone a quella chimica” (42).
Questa passione per le scienze, tuttavia, non alimenta affatto (e ne abbiamo una prova anche nel passo appena visto) un atteggiamento di tipo positivistico di esaltazione della tecnica e del “progresso”. L’interpretazione del marxismo come filosofia della tecnica, dell’Industria e del dominio sulla natura (ancora molto diffuso, non solo tra gli ambientalisti che la respingono ma anche tra qualche marxista che la difende) è completamente destituita di ogni fondamento.
L’opera di Marx e di Engels è tutta attraversata dal leit motiv della critica all’ideologia, positivistica o storicistica, del “progresso”. La quale si alimenta, nella seconda metà del XIX secolo, di una lettura “borghese” dell’evoluzionismo darwiniano (che peraltro non trova giustificazione nell’opera di Darwin ma semmai in quella del suo contemporaneo Wallace), che non manca di contaminare profondamente anche la vulgata kautskiana del marxismo, prolungando così la sua influenza fino ai giorni nostri. Questa ideologia, fortemente eurocentrica e sottilmente razzista, tende a vedere nel capitalismo il migliore dei mondi possibili, nei bianchi i rappresentanti della razza “superiore”, nell’Europa la civiltà più avanzata e nella società borghese la vera società “naturale”.
Marx, invece, fin dalla Sacra famiglia (1844) aveva attaccato con buoni argomenti il progressismo borghese (nella sua versione storicistica):
“Nonostante le pretese del progresso si hanno continui regressi e movimenti circolari […] la categoria “del progresso” è una categoria completamente inconsistente e astratta […] Tutti gli scrittori socialisti e comunisti sono partiti dall’osservazione, da un lato, che anche le azioni splendide e più vantaggiose sembrano rimanere senza splendidi risultati e sembrano finire in banalità, dall’altro lato, che tutti i progressi dello spirito sono stati finora progressi contro la massa dell’umanità, la quale è stata cacciata in una situazione sempre più disumanata. Essi perciò hanno dichiarato “il progresso” una frase insufficiente, astratta (vedi Fourier) e hanno supposto l’esistenza di una tara fondamentale del mondo civile (vedi fra gli altri Owen); essi perciò hanno sottoposto i fondamenti reali della società moderna a una critica incisiva. A questa critica comunista è corrisposto subito, nella pratica, il movimento della grande massa in opposizione alla quale aveva avuto luogo lo sviluppo storico avvenuto finora” (43).
Gli stessi argomenti tornano trent’anni dopo in Engels (a torto considerato responsabile della successiva vulgata evoluzionistica del marxismo), nell’Anti-Dühring del 1876-78: “Dove Fourier appare più grande è nella sua concezione della storia della società”, in cui svela il “circolo vizioso” delle contraddizioni della “civiltà” borghese, nella quale “la povertà sorge dalla stessa abbondanza”:
“Fourier, come si vede, maneggia la dialettica con la stessa maestria del suo contemporaneo Hegel. Con pari dialettica egli, di fronte alle chiacchiere sull’infinita perfettibilità umana, mette in rilievo il fatto che ogni fase storica ha il suo ramo ascendente ma anche il suo ramo discendente e applica questo modo di vedere anche al futuro di tutta l’umanità. Come Kant introdusse nella scienza naturale la futura distruzione della terra, così Fourier introduce nel pensiero storiografico la futura distruzione dell’umanità” (44).
Di nuovo il vecchio Engels, nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), opera in cui egli riprende in una versione sistematica gli studi etnologici di Marx (ispirati soprattutto da Morgan), scrive:
“La civiltà ha compiuto cose che l’antica società gentilizia non era per nulla in grado di compiere ma le ha compiute mettendo in moto, e sviluppando, a spese di tutte le altre loro disposizioni, le passioni e gli istinti più sordidi degli uomini […] Perché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, l’intero sviluppo della società si muove in una contraddizione permanente. Ogni progresso della produzione è contemporaneamente un regresso della situazione della classe oppressa, cioè della grande maggioranza. Ogni beneficio per gli uni è necessariamente un danno per gli altri, ogni emancipazione di una classe è una nuova oppressione per un’altra classe. Ci offre la prova più evidente di ciò l’introduzione delle macchine, i cui effetti sono oggi noti in tutto il mondo” (45).
E conclude riportando senza altri commenti l’auspicio dello stesso Morgan, che la società futura sia “una resurrezione, in una forma più elevata della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità delle antiche gentes” (Morgan, Ancient Society). Tutto ciò non ha nulla a che fare, ovviamente, con il proposito delle tendenze utopistico-reazionarie di riportare lo stato dell’umanità ad uno stadio precedente, di far girare all’indietro la ruota della storia verso uno stadio anteriore del dominio di classe. Per Marx ed Engels si tratta di fuoriuscire dalla storia “di ogni società esistita fino a questo momento”, dalla storia delle lotte (e dell’oppressione) di classe, caso mai per riannodare l’evoluzione futura alla preistoria preclassista e comunitaria. Così Marx stabiliva il nesso tra critica reazionaria e critica socialista del progresso nella lettera ad Engels già citata sopra:
“La prima reazione alla Rivoluzione francese e l’illuminismo ad essa connesso era naturale: vedere tutto medioevale, romantico […] La seconda reazione è — e corrisponde alla tendenza socialista […] gettare lo sguardo, al di là del medioevo, sul primo evo di ogni popolo. Allora (gli eruditi) sono sorpresi di trovare nelle cose più antiche le cose più recenti, di trovarvi persino egalitarians to a degree (degli egualitari a tal punto) che farebbero inorridire Proudhon” (46).
Questa critica radicale trova qua e
là — è vero — alcune limitazioni che tuttavia sono imputabili, più che ad un entusiastico
“industrialismo”, ad un atteggiamento hegeliano che valorizza la superiore
“astuzia della ragione” o all’influenza dell’eurocentrismo che Marx ed Engels
assorbono (peraltro limitatamente) dalla cultura del loro tempo.
Questo approccio discutibile si può cogliere negli scritti di Marx sull’India e
sulla colonizzazione britannica, pubblicati sulla “New York Daily Tribune” nel
1853:
“Può l’umanità adempiere il proprio destino senza che avvenga una rivoluzione fondamentale dei rapporti sociali dell’Asia? Se così non fosse, quali che siano i delitti commessi dall’Inghilterra, essa è stata lo strumento inconsapevole della storia nel suscitare quella rivoluzione” (47).
“La società indiana non ha
storia, o almeno non ha una storia conosciuta […] L’Inghilterra deve assolvere
una doppia missione in India, una distruttrice, l’altra rigeneratrice:
annientare la vecchia società asiatica e porre le fondamenta materiali della
società occidentale in Asia” (48).
Questi concetti hanno certo facilitato, direttamente o
indirettamente, il diffondersi di posizioni agnostiche o favorevoli verso il
colonialismo imperialista e verso forme di razzismo in seno alla Seconda
Internazionale e al movimento operaio, fornendo anche qualche pezza d’appoggio
alle concezioni “tappistiche” della rivoluzione nei paesi arretrati, concezioni
che inevitabilmente portano allo snaturamento o al rifiuto della rivoluzione
stessa (è questo il tragitto delle socialdemocrazie, del menscevismo, della
teoria staliniana della rivoluzione a tappe). Sono evidentemente elementi come
questi — peraltro contraddittori col contesto generale — che vanno rimossi dal
corpo del marxismo, in un processo coerente di revisione e continuità.
Alla luce della critica dell’ideologia del “progresso”
vanno lette le stesse pagine del Capitale e dei Grundrisse che parlano di una
“funzione civilizzatrice” del capitale; se esse non vengono staccate dal loro
contesto suonano tutto il contrario dell’esaltazione dell’industrializzazione a
oltranza:
“Uno degli aspetti in cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è quella di estorcere il pluslavoro in un modo e sotto condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti sociali e alla creazione degli elementi per una nuova e più elevata formazione, di quanto non avvenga nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc. Ciò porta a uno stadio in cui da un lato sono eliminate la costrizione e la monopolizzazione dello sviluppo sociale (compresi i vantaggi materiali e intellettuali) esercitati da una parte della società a spese dell’altra; dall’altro lato questo stadio crea i mezzi materiali e l’embrione di rapporti che rendono possibile combinare questo pluslavoro di una più elevata forma di società con una riduzione maggiore del tempo dedicato al lavoro materiale” (49).
Lo sviluppo non è mai giustificato come fine a se stesso ma sempre e soltanto come premessa materiale e sociale della liberazione umana. E non è mai concepito nel mero aspetto quantitativo o materiale ma, in ogni caso, prima di tutto come sviluppo umano, delle facoltà, relazioni, ricchezza di manifestazioni dell’individuo. Questo sviluppo degli individui, d’altra parte, costituisce la vera base della ricchezza che dovrà prendere il posto della base attuale, l’appropriazione capitalistica del pluslavoro altrui:
“Non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma […] la sua comprensione della natura e il dominio di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale — in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa […] Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il nonlavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla e il processo di produzione immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. (Subentra) il libero sviluppo delle individualità, e dunque […] la riduzione del lavoro necessario a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico, ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro” (50).
Un concetto ecologico di “dominio sulla natura”
Il concetto di “dominio sulla natura” che a volte ricorre in Marx ed Engels, è tutto il contrario di un atteggiamento di sfruttamento, manipolazione, degradazione. Quella marxista è naturalmente una posizione antropocentrica, che vede come fatto positivo lo sviluppo dell’utilità della natura per l’uomo. Non si vede, d’altra parte, come potrebbe essere diversamente. Tutti ci preoccupiamo oggi dell’effetto serra o del buco dell’ozono perché mettono in pericolo la vita degli uomini, non certo perché una diversa composizione chimica dell’atmosfera o la scomparsa della specie umana dal pianeta abbiano un qualche significato per l’universo, per la “natura”. Essa proseguirebbe la sua evoluzione in ogni caso, anche senza la specie umana. Questo dominio sulla natura (ma per evitare equivoci sarebbe meglio d’ora innanzi usare l’espressione “controllo del nostro rapporto con la natura”) si fonda per il marxismo sulla comprensione dell’unità tra essa e l’uomo stesso. È questo il “filo verde”, per così dire, che unisce i Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx all’Engels della Dialettica della natura, nella quale troviamo accenti di una sorprendente modernità, che anticipato il punto di vista della moderna ecologia:
“Nella natura non esistono avvenimenti isolati. Ogni fatto agisce sull’altro e viceversa. Il più delle volte, è proprio la dimenticanza di questo movimento in tutte le direzioni, di questa azione mutua, che impedisce ai nostri scienziati di veder chiaro nei più semplici fenomeni […] L’animale si limita a usufruire della natura esterna, e apporta ad essa modificazioni solo con la sua presenza; l’uomo la rende utilizzabile per i suoi scopi modificandola la domina. Questa è l’ultima, essenziale differenza tra l’uomo e gli altri animali, ed è ancora una volta il lavoro che opera questa differenza”(51).
“Non aduliamoci troppo tuttavia per la nostra vittoria umana sulla natura. La natura si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti, in prima istanza, le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto diversi, immediati, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze […]” (52).
“A ogni passo ci viene ricordato noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle in modo appropriato” (53).
Quest’ultimo passo rappresenta
un’importante qualificazione dell’antropocentrismo marxista: nulla a che vedere
con la visione dell’uomo quale “vertice” e “padrone” del “creato”,
interpretazione del mito biblico propria dell’ideologia proprietaria borghese.
Si tratta piuttosto dell’adesione piena al punto di vista materialista,
introdotto dalla rivoluzione darwiniana e oggi pienamente valorizzato
dall’ecologia, che fa dell’uomo una specie vivente tra le altre specie viventi,
la cui vita è intimamente legata a tutte le altre forme vitali. Per la qual
cosa, il rispetto per la natura e gli altri viventi è rispetto per l’uomo
stesso e per le condizioni che ne preservano la vita, senza indulgenze verso
qualsiasi romanticismo bucolico o verso il misticismo della “armonia
prestabilita della natura”, che non hanno fondamento scientifico.
Ma Engels, a differenza di molti ecologisti
contemporanei, non si accontenta di questi rilievi; indaga la matrice sociale della
degradazione ambientale:
“In una società in cui i singoli capitalisti producono e scambiano solo per il profitto immediato, possono essere presi in considerazione solo i risultati più vicini, più immediati. Il singolo industriale o commerciante è soddisfatto se vende la merce fabbricata o comprata con l’usuale profittarello e non lo preoccupa quello che in seguito accadrà alla merce o al compratore. Lo stesso si dica per gli effetti di tale attività sulla natura. Prendiamo il caso dei piantatori spagnoli a Cuba, che bruciarono completamente i boschi sui pendii e trovarono nella cenere concime sufficiente per una sola generazione di piante di caffè altamente remunerativa. Cosa importava loro che dopo di ciò le piogge tropicali portassero via l’ormai indifeso humus e lasciassero dietro di sé solo nude rocce? Nell’attuale modo di produzione viene preso prevalentemente in considerazione, sia di fronte alla natura che di fronte alla società, solo il primo, più palpabile risultato” (54).
Essendo dunque la radice dei problemi ambientali nei rapporti sociali, non basterà affidarsi ai progressi della conoscenza scientifica per risolverli:
“Per realizzare questa regolamentazione, occorre di più che non la sola conoscenza. Occorre un completo capovolgimento del modo di produzione da noi seguito fino ad oggi, e con esso di tutto il nostro attuale ordinamento sociale nel suo complesso” (55).
L’elaborazione di Marx e di Engels è dunque attraversata costantemente dall’idea della natura contraddittoria del capitalismo il cui sviluppo è al tempo stesso sviluppo dei suoi aspetti contraddittori; lo sviluppo delle forze produttive non solo tende a convertirsi in spreco e paralisi di queste stesse forze ma esso diventa in modo crescente sviluppo di forze distruttive dell’uomo e della natura. Donde la necessità immediata della prassi rivoluzionaria consapevole per sventare la catastrofe sempre incombente, e non rinvio della rivoluzione in vista di catastrofi future (e men che meno attesa di una automatica, evolutiva, pacifica risoluzione delle contraddizioni stesse nei tempi infiniti di una qualche via riformista senza riforme).
Il metodo dialettico e il ruolo della prassi consapevole
La profondità d’analisi del marxismo — che trova conferma nell’intuizione sistematica di aspetti dello sviluppo capitalistico che erano, nel secolo scorso, di là da venire o appena in germe, e che non ha paragoni nell’opera di altri studiosi di quel tempo — testimonia infine della fecondità del suo metodo scientifico: il metodo dialettico. Esso consiste essenzialmente nell’esaminare la società non come dato immutabile e astorico o come insieme casuale di fatti senza reciproco rapporto (come è tipico di molta scienza sociale borghese), ma come una totalità organica in divenire, cioè come unità articolata di molteplici elementi interconnessi, ciascuno dei quali ha un’origine, un divenire, un trasformarsi, ma in relazione con tutto il resto e secondo leggi che spetta all’indagine scientifica portare alla luce. Questo è il significato delle engelsiane leggi della dialettica (ricavate da Hegel): “la conversione della quantità in qualità e viceversa”, “la compenetrazione degli opposti”, “la negazione della negazione”. Esse vanno intese come ciò che accade nello svolgimento dei processi storici, ma solo l’indagine empirica può decidere come e quando effettivamente questi mutamenti abbiano luogo. E questo rinvio all’indagine empirica (senza peraltro concedere nulla all’ingenua fiducia positivistica nel “fatto”, che, al di fuori della teoria che lo spiega, è privo di significato proprio) che costituisce la natura materialistica del metodo marxista, in contrapposizione con l’impiego idealistico della dialettica in Hegel, il quale ne aveva fatto una sorta di schema a priori per spiegare l’automovimento dell’Idea, da Hegel intesa come il vero motore del divenire del mondo. I singoli elementi che costituiscono la società (classi, forze produttive, rapporti sociali, cultura, forze politiche, ecc.) e che stanno in ogni momento in certe relazioni strutturali tra loro e con l’ambiente naturale, nel corso del divenire e sotto la spinta degli antagonismi e delle interazioni che si sviluppano tra di essi, cambiano di natura, di qualità, di importanza nell’economia complessiva del processo storico stesso (si pensi all’ascesa e al declino delle classi, delle forme politiche, delle forme culturali, dei singoli rami produttivi, ecc. nel corso della storia). Con ciò, cambia la struttura stessa dell’unità in divenire (la società in tutti i suoi aspetti). Caratteristica peculiare del metodo dialettico è quella di consentire la comprensione dei cambiamenti qualitativi che sfuggono invece ai metodi meramente quantitativi di indagine del reale. E questo un problema sempre più chiaramente avvertito anche dalle scienze contemporanee, venuto in primo piano proprio in relazione agli sviluppi dell’ecologia e della crisi ambientale.
La comprensione dell’esistente e della sua logica di sviluppo include la comprensione della possibilità del mutamento e della natura di quest’ultimo. Si tratta, comunque, di una posizione che non ha nulla di deterministico: il futuro non è già interamente scritto nel presente e questo nel passato. Se così fosse, ciò rappresenterebbe la negazione di ogni storia umana, in quanto tutto sarebbe ricondotto a un meccanismo cieco che svolge il suo movimento predeterminato in origine una volta per tutte, e l’azione umana sarebbe né più né meno che una rotella inconsapevole di questo meccanismo. Invece la dialettica materialistica mette in luce che, in ogni momento storico dato, sussistono determinate condizioni oggettive che delimitano un certo numero di possibilità storiche di evoluzione. Entro questo spettro di possibilità, l’azione consapevole e inconsapevole degli uomini può determinare un esito oppure un altro. E ovviamente l’esito effettuale cambia le condizioni di tutta la storia successiva (ma il fatto che uno sbocco e non un altro si sia verificato, non significa minimamente che esso fosse l’unico esito possibile nelle condizioni date). Il punto cruciale è che gli uomini operano inevitabilmente entro certe circostanze storiche, e queste pongono ad essi dei limiti; ma, d’altra parte, l’azione degli uomini trasforma queste stesse circostanze e, soprattutto, essi possono proporsi consapevolmente di trasformarle (56). In questo modo la loro azione diventa determinante nel far sì che il processo storico imbocchi una strada invece che un’altra.
L’azione consapevole nella e sulla storia viene definita da Marx (fin dalle Tesi su Feuerbach del 1845 (57)) il termine di prassi rivoluzionaria. La concreta analisi storica e politica può chiarire quelle che sono le possibilità, in ogni momento dato, della prassi rivoluzionaria. È questa concezione che contraddistingue il marxismo: esso non è solo una filosofia che cerca di comprendere il mondo, ma un metodo scientifico che si adopera praticamente per cambiarlo; e non sulla base di qualche ideale da realizzare, ma di trasformazioni la cui possibilità si inscrive nelle tendenze obiettive del divenire storico. Tutto ciò non dà la certezza positiva del successo inevitabile della lotta per una superiore forma di relazioni sociali. Ci dà oggi, invece, la certezza negativa che, senza l’azione consapevole per questo obiettivo, il capitalismo decreterà la condanna a morte della civiltà e sospingerà l’umanità verso una barbarie senza precedenti. L’alternativa tra
socialismo e barbarie è, oggi più che mai, un vero bivio storico.
Note
(42) K. Marx – F. Engels, Carteggio, in K. Marx – F. Engels, Opere complete, vol. XLIII, p. 59.
(43) K. Marx – F. Engels, Sacra famiglia, in K. Marx – F. Engels, Opere, IV, pp. 92-93.
(44) F. Engels, Anti-Dühring, in K. Marx-F. Engels, Opere, XXV, pp. 249-250.
(45) F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, pp. 206-207 e 208.
(46) K. Marx-F. Engels, Opere complete, XVIII, pp. 57-58.
(47) K. Marx-F. Engels, Opere complete, XII, p. 135.
(48) K. Marx-F. Engels, Opere complete, XXV, p 223.
(49) K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, III, pp. 933-934.
(50) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), La Nuova Italia, Firenze 1968, II, pp. 401-402.
(51) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 446.
(52) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 467.
(53) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 468.
(54) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 470.
(55) F. Engels, Dialettica della natura, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXV, p. 469.
(56) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 27 e 30.
(57) K. Marx, Tesi su Feuerbach, tesi III e XI, in K. Marx-F. Engels, Opere, V, pp. 4-5.