Antiper | Dell’emulazione irriflessiva e della distruzione di statue
Da quando si è diffusa nella rivolta di Minneapolis la pratica della distruzione di statue (specialmente quella di Cristoforo Colombo) in larga parte dell’asin/istra social italiana è scattato il classico riflesso condizionato (di cui è espressione esemplare la parola d’ordine “imbrattiamo la statua di Montanelli!”); non potendo emulare le cose più interessanti della rivolta americana (ovvero una mobilitazione radicale contro il razzismo e l’ingiustizia sociale che coinvolge milioni di persone, soprattutto giovani, trasversalmente alle comunità), l’asin/istra ha deciso che poteva comunque emulare (a chiacchiere) quelle meno interessanti.
Ora, quand’è che l’abbattimento di statue erette da un regime diventa davvero interessante? E’ chiaro: quando è l’espressione dell’abbattimento del regime che ha eretto le statue. Diversamente, invece che ad un atto di potenza, questo abbattimento può addirittura assomigliare ad un atto di impotenza. Non sono in grado di colpire l’oppressione di classe e ne colpisco i simboli; non sono neppure in grado di colpire i simboli maggiori e ripiego su quelli minori, più facili da raggiungere. Accadeva una cosa simile anche alla fine della parabola della lotta armata degli anni ‘70-’80 quando, non più in grado di colpire obiettivi importanti ma protetti, si finì per colpire obiettivi ininfluenti ma non protetti, elevati però a “simbolo”.
Così accade che le statue di Cristoforo Colombo siano state elevate abbastanza forzatamente a simbolo del razzismo negli Stati Uniti quando invece gli Stati Uniti stessi sono l’essenza, e non semplicemente il simbolo, del razzismo, dell’imperialismo e dell’oppressione di ogni tipo. Dunque, se le statue di Colombo meritano la distruzione, non c’è mattone o edificio negli Stati Uniti che non la meriti cento volte di più.
Se si voleva cercare un vero simbolo razzista bastava rivolgersi al “padre fondatore” della nazione, George Washington, che di schiavi ne possedeva almeno un centinaio. E se si volevano cercare “simboli” di veri schiavisti bastava cercare le statue, oltre che di Washington, di Abramo Lincoln o di James Madison… Chissà quante ce ne sono negli Stati Uniti. Se si sceglie di colpire i simboli che si scelgano i simboli giusti.
L’abbattimento delle statue di Colombo o l’imbrattamento di quelle di Montanelli non suscitano in noi chissà quale emozione. Si tratta di atti poco interessanti e solo una realtà politica morta come quella italiana può farne oggetto di entusiasmo.
Il punto che ci interessa mettere in rilievo riguarda la similitudine che ci pare di rilevare tra la distruzione delle statue nella rivolta di Minneapolis e la distruzione delle macchine di inizio ‘800 operata da un movimento inglese passato alla storia come “luddismo”.
Di quel movimento Marx scrisse
“La distruzione in massa di macchine nei distretti manifatturieri inglesi durante i primi quindici anni del secolo XIX dovuta in particolare allo sfruttamento del telaio a vapore offrì, sotto il nome di movimenti dei Ludditi, il pretesto per violenze ultrareazionarie al governo antigiacobino d’un Sidmouth, Castlereagh, ecc. Ci vogliono tempo ed esperienza affinché l’operaio apprenda a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a trasferire i suoi attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di sfruttamento di esso [1]” [2]
Per parafrasare un noto passaggio dell’Ideologia Tedesca, questi movimenti non combattono il mondo realmente esistente quando combattono soltanto i simboli di questo mondo [3].
Si deve trasferire la lotta dai simboli dell’oppressione al sistema dell’oppressione. Ma serve tempo; e soprattutto serve un’evoluzione che non può essere spontanea. Ecco perché, se si deve essere indulgenti con un movimento spontaneo quando abbatte dei simboli (le macchine piuttosto che le statue), non si può essere indulgenti con chi propone di elevare queste azioni a “modello” e addirittura di emularle (sia pure solo a chiacchiere).
Nel confrontarsi con un movimento spontaneo di massa (per quanto la “rivolta di Minneapolis” non sia affatto solo spontanea) sono due gli atteggiamenti che devono essere rifuggiti: quello di criticare il movimento spontaneo perché non possiede una strategia (cioè perché è spontaneo) e, all’opposto, quello di approvare qualsiasi azione del movimento spontaneo (come se la spontaneità possedesse chissà quale potere magico, laddove invece la spontaneità che non si sedimenta in organizzazione rivoluzionaria è solo produzione transitoria di caos; e il caos da passaggio necessario tra un ordine e un altro diventa così semplice passaggio da un ordine a sé stesso).
“La lotta ai simboli dell’oppressione in assenza di lotta di classe è una reazione prevalentemente emotiva, che si esaurisce nell’atto stesso della distruzione del simbolo, dalla quale l’attore riceve soddisfazione alla propria rabbia” [4]
In quanto soddisfazione effimera l’azione simbolica può addirittura giocare un ruolo negativo dal momento che depotenzia la rabbia e offre una sensazione di appagamento che poi cerca la sua riproduzione, specialmente in quanto non ci sono altre forme di appagamento: dopo un po’ spaccare vetrine diventa l’unico obbiettivo dello spaccare vetrine e cessa di essere interessante. Poiché è l’estetica del conflitto che mi appaga cerco appagamento estetico in ogni conflitto. Questo aiuta a spiegare perché i ribelli di Minneapolis e quelli di Hong Kong o quelli siriani o quelli kurdi o quelli libici o quelli di Piazza Tahrir… per alcuni confusi siano tutti egualmente interessanti mentre invece ci sono ribellioni che meritano di essere sostenute, ribellioni che meritano di essere criticate e ribellioni che meritano di essere combattute.
Il punto non è se sia giusto o meno abbattere una statua. Statue, monumenti, edifici… si sono sempre abbattuti durante le rivolte e nei passaggi d’epoca soprattutto quando percepiti come espressioni storiche e culturali precipue delle classi dominanti dell’ancient régime. Il punto è che senza la Rivoluzione Francese l’abbattimento della Bastiglia non sarebbe stato molto di più che l’occasione per costruire una prigione più nuova e moderna.
Detto questo ci sono statue che meritano di essere abbattute ed altre che, volenti o nolenti, possiedono un significato polisemico (sono simboli di cose diverse) e in quanto tali non possono essere etichettate in un solo modo e non possono essere abbattute tanto facilmente. Per fare un solo esempio, la statua di Aristotele non può essere vista semplicemente come la statua di un possessore di schiavi, anche se così l’avrebbe vista, del tutto legittimamente, uno schiavo ateniese del IV secolo avanti Cristo che essendo analfabeta di certo non poteva apprezzare la grandezza dell’opera del Filosofo.
Ora noi possiamo abbattere la statua di Aristotele in quanto possessore di schiavi ed anzi possiamo bruciare ogni sua opera dal momento che, come egli stesso riconosceva, la possibilità di fare filosofia deriva(va) dall’averne il tempo (scholé). In altri termini, la condizione materiale che permetteva ad Aristotele di essere filosofo era proprio quella di essere proprietario di schiavi che gli permettevano di non doversi guadagnarsi il pane.
Ma si tratterebbe di una scelta sbagliata.
La scelta giusta è quella di combattere per un mondo in cui non ci sia più bisogno di reificare storie o pensieri in pezzi di marmo o di bronzo. In quel mondo non avremo più bisogno di erigere statue ad Aristotele e potremo distinguere il suo pensiero non schiavistico dal suo essere stato proprietario di schiavi; avremo la possibilità di guardare alle nostre spalle e misurare il cammino percorso dall’umanità per superare tutte le ingiustizie insite nelle società classiste e per raggiungere un mondo dove si studiano ancora Aristotele, Platone o Marx, ma dove non c’è più traccia di sfruttamento degli uomini da parte di altri uomini. Fino a quel momento razzismo e oppressione saranno sempre quotidianità, mai “storia del passato”.
Note
[1] [Nota di Marx] “Nelle manifatture all’antica si rinnova a volte ancor oggi la forma rozza delle ribellioni operaie contro le macchine. Così per esempio gli affilatori di lime di Sheffield nel 1865”
[2] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Sezione IV “La produzione del plusvalore relativo”, Capitolo XIII “Macchine e grande industria”.
[3] Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca: “I più giovani tra loro hanno trovato l’espressione giusta per la loro attività, affermando di combattere soltanto contro delle «frasi». Dimenticano soltanto che a queste frasi essi stessi non oppongono altro che frasi, e che non combattono il mondo realmente esistente quando combattono soltanto le frasi di questo mondo”
[4] Da Twitter.