Antiper | Angela Davis e la “rivoluzione” che non c’è
«L’œil ne voit que ce que l’esprit est prêt à comprendre» (Henri Bergson)
Che cos’è il materialismo? E’ l’approccio gnoseologico secondo cui la soggettività è, in ultima istanza, un “riflesso” dell’oggettività. Potremmo dire, con Politzer, che “l’essere produce il pensiero” o, con Marx, che “è l’essere sociale che determina la coscienza”. La mente riflette il mondo reale dentro di sé sotto forma di idee sul mondo.
Possiedo l’idea di cosa sia un cavallo perché esistono i cavalli concreti che io riconosco non grazie ad una iperuranica “cavallinità” [1], ma in quanto ho avuto esperienza di qualche cavallo o di qualche rappresentazione di cavallo o di qualche racconto sui cavalli. Senza questa esperienza, diretta o indiretta, non saprei mai riconoscere che quell’animale a quattro zampe con la criniera è un cavallo.
E che cos’è l’idealismo? E’, all’inverso, l’approccio secondo cui l’oggettività è un prodotto della soggettività. Per semplificare: il mondo è un prodotto della mente che lo pensa. Il pensiero produce l’essere. O addirittura “Esse est percipi” (Berkeley, idealismo soggettivo ovvero l’idealismo al quadrato).
Ora, qual è il grande rischio di adottare un approccio idealistico? E’ quello di voler vedere nel mondo ciò che in realtà abbiamo solo nella nostra testa, di selezionare dall’esistente solo ciò che conferma i nostri giudizi (o pregiudizi) e i nostri desideri.
Non a caso Marx suggeriva di “rovesciare” la dialettica hegeliana
“Per il suo fondamento, il mio metodo dialettico, non solo è differente da quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l’opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in soggetto indipendente col nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce a sua volta solo il fenomeno esterno dell’idea o processo del pensiero. Per me, viceversa, l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini” [2]
Quello del “voler vedere” è un processo relativamente semplice dal momento che la realtà è un magma contraddittorio nel quale è sempre possibile scegliere elementi che confermano le nostre idee e scartare quelli che le sconfessano.
E infatti, nella sua forma consapevole, questo meccanismo di selezione sta alla base delle classiche tecniche di mistificazione operate dai media i quali non hanno ormai più bisogno di inventare le notizie (fanno anche quello, di tanto in tanto, ma sempre più raramente per non rischiare di incorrere nel debunking della rete). E’ molto più semplice illuminare le cose che si vogliono mostrare e mettere in ombra quelle che non si vogliono mostrare, mandare in onda un certo tipo di notizie al TG delle 20 e un altro tipo di notizie al TG delle 3 di notte: entrambe le notizie sono state date, ma su una ho acceso i riflettori e sull’altra li ho spenti.
Naturalmente tutti corriamo il rischio di vedere solo quello che vogliamo vedere; è piacevole riconoscere nel mondo quello che vorremmo che ci fosse davvero.
Ma il grande pericolo che ne scaturisce è quello che a forza di selezionare i fatti del mondo o, peggio ancora, a forza di vedere “fatti” che non esistono si finisca per costruire un mondo che non esiste, magari migliore di quello esistente, ma del tutto immaginario.
Immaginare un mondo-non-ancora-esistente è, per chi vuole cambiare il mondo-esistente, assolutamente necessario. Come potremmo decidere in quale direzione impiegare le nostre forze se non avessimo alcuna idea di come dovrebbe essere un mondo migliore?
D’altra parte, limitarsi a dire che quello attuale è un mondo ingiusto e che è possibile “un altro mondo” significa ben poco. Dunque è fondamentale avere una visione potremmo dire “utopica, ma non utopistica” di come le cose possono cambiare per impegnarsi a cambiarle effettivamente.
Ma se è indispensabile pensare un mondo-non-ancora-esistente per indirizzare la nostra volontà di cambiamento è tuttavia nel mondo-esistente che tale cambiamento deve essere operato. Fare le rivoluzioni nel mondo immaginario non è proprio la stessa cosa del farle nel mondo reale.
Un esempio di come funziona la volontà di vedere lo possiamo ricavare da un piccolo caso che ruota attorno ad una intervista del Guardian ad Angela Davis.
In questa intervista [3] Angela Davis risponde ad alcune domande che riguardano l’attuale uprising negli Stati Uniti. Nell’intervista non ricorre mai la parola “revolution” e il titolo è ricavato da una frase di Angela che suona un po’ così: “Sapevamo che il ruolo della polizia era quello di proteggere la supremazia bianca”.
Questa intervista viene tradotta qualche giorno dopo da Internazionale [3]; anche qui la parola “rivoluzione” non appare mai nel corpo del testo (alcune volte appare la parola rivolta, come nell’originale). Cambia il titolo rispetto al Guardian (“La lotta per cambiare il mondo secondo Angela Davis”), ma della parola rivoluzione neppure l’ombra.
Ad un certo punto comincia a girare l’intervista con un nuovo titolo, evidentemente più consono alle aspettative rivoluzionarie dei retwittatori: “Angela Davis: it’s about revolution”.
Il nuovo titolo lascia intendere chiaramente che sia proprio Angela Davis a dichiarare che “si tratta di una rivoluzione”. Il pezzo viene pubblicato da mezza rete (e giustamente perché le cose che dice Angela Davis sono sempre molto interessanti, anche quando non sono del tutto condivisibili).
Ma c’è ancora un altro passo prima che la trasformazione sia completa. Un gruppo di compagni di Roma produce un manifesto in occasione della partecipazione di Angela Davis alla manifestazione dei portuali di Oakland e il cui testo – “Don’t you know. They are talking about a revolution” – è una strofa della canzone di Tracy Chapman dal titolo omonimo (“Talkin’ ‘bout a Revolution”) che campeggia su una bellissima immagine di Angela Davis in mezzo alla manifestazione con il pugno chiuso alzato (che però negli Stati Uniti ha un significato piuttosto diverso da quello che ha da noi).
E qui si potrebbe addirittura pensare che siano i portuali di Oakland a parlare di rivoluzione. Magari, vorremmo aggiungere, anche se i coraggiosi portuali di Oakland hanno dovuto ricorrere ad un escamotage anche solo per bypassare le liberticide leggi sul diritto di sciopero americane.
In definitiva, nel percorso che va dal Guardian alla pagina FB di Militant scompaiono le parole di Angela Davis e appaiono quelle di Tracy Chapman che però, nel contesto della diffusione dell’intervista tradotta da Internazionale, suonano come una dichiarazione di Angela Davis stessa: stanno parlando di (fare la) rivoluzione (il che però non è vero o, per meglio dire, è vero in piccolissima parte e più come aspirazione astratta della componente politicizzata del movimento che non come concreto programma politico).
In conclusione. E’ solo un piccolo esempio e siamo certi che se mai arriverà agli orecchi di qualche compagno del gruppo Militant o di quei compagni che si sono inventati di sana pianta il titolo “rivoluzionario” dell’intervista, non darà loro gran fastidio.
Per noi era solo un modo per criticare la tendenza, sempre più diffusa, a vedere nella realtà cose che non esistono, a rovesciare il rapporto tra idee e realtà, a pretendere che la realtà si adegui alle idee. Un approccio, lo dicevamo all’inizio, idealistico.
Una tendenza che è criticabile fraternamente quando è in buona fede, ma che è insopportabile e deleteria quando è il frutto di calcoli propagandistici – spesso obiettivamente risibili [5] – condotti per galvanizzare compagnerie che hanno il continuo bisogno psicologico di essere galvanizzate e per offrire loro una grottesca immagine di “potenza”.
Note
[1] Antistene, “vedo il cavallo ma non la cavallinità”.
[2] Karl Marx, Poscritto alla seconda edizione de Il Capitale.
[3] Angela Davis: We knew that the role of the police was to protect white supremacy, The Guardian, 15 giugno 2020
[4] Internazionale, La lotta per cambiare il mondo secondo Angela Davis, Lanre Bakare, The Guardian, Regno Unito
[5] Valgano, per l’Italia, le esilaranti dichiarazioni sulle “migliaia e migliaia” di lavoratori “in lotta” ai presidi sabatini di inizio mese o le scene di giubilo universale per l’imbrattamento della statua di Montanelli.