Gigi Roggero | Due brani su Lenin, sviluppo del capitalismo e migrazioni (da “La misteriosa curva della retta di Lenin”)
Lo sviluppo del capitalismo non è perciò mai trattato da Lenin come una linea storica oggettivamente predeterminata; soprattutto, dal momento che il capitale è un rapporto sociale, esso è sempre intrecciato allo sviluppo della soggettività operaia. Ciò risalta con straordinaria efficacia quando l’autore esamina i movimenti migratori. Ancora una volta, è l’analisi concreta dei processi specifici a fornire le basi per la generalizzazione teorica. Lenin mostra attraverso i dati come emigrino principalmente i contadini dei governatorati agricoli, soprattutto quelli densamente popolati del centro:
«Dalle zone di migrazione partono principalmente i contadini di media agiatezza, mentre nella terra natia rimangono principalmente i gruppi estremi di contadini. In tal modo le migrazioni intensificano la disgregazione della popolazione contadina nei luoghi d’origine e trasferiscono elementi di disgregazione nelle zone d’immigrazione» [1].
Il lavoro vivo si sposta dai luoghi dove sono particolarmente sviluppate le otrabotki e dove era più presente la servitù della gleba. In buona sostanza,
«gli operai fuggono dunque dal lavoro “semilibero” verso il lavoro libero. […] L’esodo degli operai esprime dunque non solo la tendenza della popolazione a ripartirsi in modo più uniforme su un dato territorio, ma anche la tendenza degli operai ad andare dove si sta meglio» [2].
Emerge qui con chiarezza come in Lenin non vi sia – come sostengono i populisti – nessuna apologia dello sviluppo del capitalismo, ma un’analisi materialisticamente fondata di un rapporto sociale in cui sono i comportamenti e le espressioni soggettive a determinare il giudizio sulle tendenze analizzate. Lo testimoniano il caso delle rotture dei contratti nelle campagne russe, ormai teatro dello sviluppo di un’agricoltura capitalistica. Tali rotture non sono unilaterali, ma avvengono da entrambe le parti. È ciò che osserva uno scrivano di volost [3] in una comunicazione:
«All’epoca della mietitura, se il raccolto è buono, l’operaio trionfa e non è impresa facile persuaderlo. Gli si propone un prezzo, ma egli non ne vuol sapere; non fa che ripetere: dammi quello che chiedo, altrimenti non verrò. E questo non perché ci sia mancanza di operai, ma perché, come dicono gli stessi operai, “questa volta tocca a noi”» [4].
Gli operai, infatti, preferiscono spesso l’ingaggio a giornata o a settimana, che consente loro di essere maggiormente liberi e mobili, pronti a fuggire altrove, verso opportunità di vita migliori. Questa volta tocca a noi, dunque: la fuga operaia diventa strumento di minaccia e contrattazione con il padrone. Non è casuale il malcontento degli agrari per la fuga dei contadini nelle città e le lamentele per il poco attaccamento alla terra, che i padroni sembrano spesso condividere con i teorici populisti. Commentando i risultati della statistica degli zemstvo, in cui si evidenzia come l’operaio fugga dalle grandi tenute appena abbia la possibilità di guadagnare denaro altrove, soprattutto dove esistono molte miniere di carbone, Lenin esclama:
«Il contadino dunque pur di sottrarsi alle otrabotki è perfino disposto a fuggire nelle miniere! La paga regolare in contanti, la forma impersonale dell’assunzione e il lavoro regolare lo “attirano” al punto da fargli preferire perfino le miniere sottoterra all’agricoltura, a quell’agricoltura che i nostri populisti amano dipingere con colori così idilliaci. Il fatto è che il contadino sa per esperienza personale che cosa valgano quelle otrabotki che agrari e populisti idealizzano e quanto siano migliori di esse i rapporti puramente capitalistici» [5].
Quindi, con le migrazioni gli operai migliorano, dal punto di vista economico, le proprie condizioni di vita, perché si spostano dove il salario è più elevato, e spezzano le forme di ingaggio semiservile e le otrabotki. Ma non si tratta solo di una questione economica:
«Le migrazioni sono uno dei principali fattori che impediscono ai contadini di “coprirsi di muschio”; la storia ne ha già ammucchiato loro addosso troppo. Se la popolazione non diventa mobile non può nemmeno svilupparsi, e sarebbe ingenuo credere che una qualsiasi scuola di villaggio possa dare al popolo quel che gli dà la conoscenza diretta dei vari rapporti e ordinamenti esistenti nel sud e nel nord, nell’agricoltura e nell’industria, nella capitale e nella lontana provincia» [6].
La lettura delle stesse statistiche, del resto, mostra con sufficiente chiarezza come la mobilità del lavoro vivo non risponda a un deterministico incontro sul mercato tra domanda e offerta:
«Gli operai industriali, al pari di quelli agricoli, abbandonano non solo le località in cui esiste un’eccedenza di operai, ma anche quelle in cui questi scarseggiano. […] Gli operai se ne vanno dunque non soltanto perché non trovano “occupazioni a portata di mano sul luogo”, ma anche perché sono spinti a recarsi dove le condizioni sono migliori. Per quanto elementare possa sembrare questo fatto, non sarà superfluo ricordarlo ancora una volta agli economisti populisti, i quali idealizzano le occupazioni locali e condannano il lavoro fuori sede, ignorando la funzione progressiva che ha la mobilità nella popolazione creata dal capitalismo» [7].
C’è un movimento di libertà che eccede continuamente la formazione e regolazione del mercato del lavoro: il capitalismo, al contempo, ne ha necessariamente bisogno e ne è continuamente minacciato.
Comunque, Lenin precisa come il mercato interno per il capitalismo venga creato non solo dal fatto che la popolazione dall’agricoltura passa all’industria, ma anche dalla specializzazione dell’agricoltura mercantile, il cui sviluppo è al centro del quarto capitolo. Nello studio l’autore passa in rassegna una gamma straordinariamente variegata di tipi di produzione, da cui può trarre e rafforzare le proprie conclusioni sul significato del capitalismo nell’agricoltura russa: l’affermazione del suo carattere mercantile e di impresa; l’eterogeneità che la contraddistingue; la creazione del mercato interno per il capitalismo; l’estensione e l’approfondimento delle contraddizioni specifiche di questo modo di produzione, che va di pari passo con la trasformazione del «feudatario sovrano» in industriale, con la rottura della secolare stagnazione dell’agricoltura russa, con lo sviluppo della tecnica e delle forze produttive, con l’impiego su grande scala delle macchine e della cooperazione degli operai, con l’indebolimento delle otrabotki e della dipendenza personale dell’agricoltore. Insomma,
«il capitalismo ha spezzato per la prima volta queste barriere puramente medioevali, ed ha fatto benissimo a spezzarle. Le differenze tra i gruppi di contadini, tra le loro categorie in base alla superficie dei nadiel risultano già oggi molto meno importanti delle differenze economiche esistenti all’interno di ogni gruppo, di ogni categoria, di ogni obstcina. Il capitalismo distrugge la segregazione e la limitatezza locale, sostituisce alle piccole divisioni medioevali degli agricoltori una sola grande divisione, estesa a tutta la nazione, in classi che occupano posti differenti nel sistema generale dell’economia capitalistica. Se in passato le condizioni stesse della produzione facevano sì che la massa degli agricoltori fosse inchiodata al luogo di residenza, il sorgere di forme diverse e di differenti zone di agricoltura mercantile e capitalistica non poteva non provocare migrazioni di masse enormi della popolazione in tutto il paese; e senza la mobilità della popolazione (come si è già rilevato più sopra) non è pensabile uno sviluppo della sua coscienza e della sua indipendenza» [8].
[…]
Concentrandosi sulla «funzione progressiva» dell’esodo, Lenin indica invece «il desiderio di trovare il modo di uscirne» [9], già praticato in massa dai proletari delle campagne:
«Noi, ad onta della teoria populista, affermiamo che le “migrazioni” di operai non solo presentano dei vantaggi “puramente economici” per gli stessi operai, ma devono altresì essere considerate come un fenomeno progressivo in generale; che l’attenzione della società dev’essere rivolta non a sostituire le industrie fuori sede con “occupazioni a portata di mano” locali, ma, al contrario, a sopprimere tutti gli ostacoli che si oppongono all’esodo, a facilitarlo in tutti i modi, a rendere meno costoso lo spostamento degli operai e a migliorarne tutte le condizioni, ecc. […] Al pari dell’abbandono dell’agricoltura per recarsi nelle città, l’esodo non agricolo è un fenomeno progressivo. Esso strappa la popolazione dai paesi sperduti, arretrati, dimenticati dalla storia, e la getta nel turbine della vita sociale moderna. Esso eleva il livello d’istruzione della popolazione e la sua coscienza, le istilla le abitudini e i bisogni delle persone civili. I contadini sono attratti all’emigrazione da “motivi d’ordine superiore”, cioè dalla vita apparentemente più progredita e più raffinata del pietroburghese; cercano d’andare “dove si sta meglio”» [10].
Ponendo la questione dello sviluppo del capitalismo Lenin pone quindi, immediatamente, la questione dello sviluppo della soggettività. Meglio ancora, valuta il primo a partire dal punto di vista del secondo. È qui, e non in una supposta idea evolutiva stadiale, che non solo non c’è posto per la nostalgia romantica, ma questa si rivela decisamente reazionaria:
«La “depravazione” degli operai urbani spaventa il piccolo borghese, che preferisce “il focolare domestico” (con le nuore a disposizione del capofamiglia e col bastone), la “stabilità sul fondo” (con l’abbrutimento e con la barbarie) e non capisce che il risveglio dell’uomo nella “bestia da soma” – risveglio che ha un’importanza storica così gigantesca che per esso sono legittimi tutti i sacrifici – non può non assumere forme impetuose nelle condizioni capitalistiche in generale e in quelle russe in particolare» [11].
A questo punto Lenin può motivatamente scagliarsi contro la condanna populista dell’esodo operaio, che fanno il paio con le retoriche dei grandi proprietari fondiari sulle «baldorie», l’«indole violenta», l’«ubriachezza», la «tendenza ad abbandonare la famiglia per sbarazzarsene e a sottrarsi alla sorveglianza dei genitori», il «desiderio di divertimenti e di una vita più gaia» e di liberarsi del muschio di cui si ricoprono le forme di vita immobili. Insomma, tutto ciò che ricalca il biasimo populista dei vizi del proletariato urbano e la mancanza di attaccamento alla terra di chi fugge dalle campagne. Innanzitutto le donne, che possono rendersi indipendenti dalla famiglia, per quanto l’uguaglianza sia solo nello sfruttamento e non nella libertà: è l’«uguaglianza del proletario», come osserva Kharizomenov [12]. La migrazione, comunque, indebolisce l’oppressione della vecchia famiglia patriarcale, come nota la rassegna di un governatorato:
«In confronto con le località a popolazione sedentaria […] la famiglia è molto meno solida non solo nel senso dell’autorità patriarcale del più anziano, ma anche per quanto riguarda i rapporti tra genitori e figli, tra marito e moglie. Da figli inviati a Pietroburgo fin dall’età di dodici anni non ci si può, certo, attendere un forte amore per i genitori, né attaccamento al tetto paterno; essi divengono involontariamente cosmopoliti: “dove si sta bene, là è la mia patria”» [13].
Ma le migrazioni creano anche le migliori condizioni di possibilità della lotta per chi rimane nelle campagne. Detta con termini anacronistici, l’exit rafforza la voice:
«Last but not least, le occupazioni fuori sede non agricole elevano il salario non solo degli operai salariati che partono, ma anche di quelli che restano» [14].
È da intendersi in questo senso l’affermazione secondo cui il proletario soffre tanto dello sviluppo del capitalismo, quanto della sua assenza.
1. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo, p. 171.
2. Ivi, p. 228.
3. Il volost è la circoscrizione territoriale rurale, la più piccola unità amministrativa della Russia zarista.
4. Citato ivi, p. 235.
5. Ivi, p. 196.
6. Ivi, p. 242.
7. Ivi, p. 555.
8. Ivi, p. 312.
9. Lenin, Perle, cit., p. 485.
10. Lenin, Lo sviluppo del capitalismo, cit., pp. 239-240, 581.
11. Lenin, Il contenuto economico, cit., p. 397.
12. Citato in Lenin, Lo sviluppo del capitalismo, cit., p. 553.
13. Ivi, p. 582.
14. Ivi, pp. 582-583.