Louis Althusser | Introduzione al Libro I de Il Capitale. Punto II (commentato)
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Passo ora alle difficoltà teoriche che ostacolano una lettura rapida e anche, in certi punti, una lettura molto attenta del libro I del Capitale. Vorrei ricordare che è proprio appoggiandosi su queste difficoltà che l’ideologia borghese cerca di convincersi – ma vi riesce veramente? – di avere da tempo “confutato” la teoria di Marx.
La prima difficoltà è di ordine molto generale. Essa dipende dal semplice fatto che il libro I non è che il primo libro di un’opera che ne comporta quattro. E dico proprio quattro. Infatti, se si conosce, in generale, l’esistenza dei libri I, II, III, e anche se li si è letti, si passa generalmente sotto silenzio il libro IV, come a supporre che se ne sospetti l’esistenza.
Il “misterioso” libro IV è misterioso soltanto per coloro che pensano che Marx sia uno “storico” fra i tanti, autore di una Storia delle dottrine economiche, poiché è con questo titolo aberrante che Molitor ha, se così si può dire, tradotto una certa opera profondamente teorica, e che si chiama in realtà Teorie sul plusvalore [1].
Senza dubbio, il libro I del Capitale è il solo che Marx abbia pubblicato mentre era ancora in vita, mentre il II e il III libro sono stati pubblicati dopo la sua morte, nel 1883, da Engels, e il libro IV da Kautsky [2]. Nel 1886, nella prefazione all’edizione inglese, Engels poteva dire che il libro I “costituisce un tutto in sé”. Di fatto, in mancanza dei libri successivi, bisognava pure “considerarlo come un’opera indipendente”.
Oggi non è più così. Disponiamo infatti dei quattro libri, in tedesco [3] e in francese [4]. Segnalo, a quanti ne sono in grado, che hanno tutto l’interesse a riferirsi costantemente al testo tedesco, per controllare la traduzione non soltanto del libro IV (brulicante di gravi errori), ma anche dei libri II e III (in cui non sempre sono rimosse alcune difficoltà di terminologia), oltre che del libro I, tradotto da Roy, in una versione che Marx ha completamente rivisto di sua mano, e in alcuni passaggi rettificato e perfino sensibilmente aumentato. Infatti Marx, che dubitava delle capacità teoriche dei lettori francesi [5], ha talvolta pericolosamente attenuato la limpidezza delle espressioni concettuali originali.
La conoscenza degli altri tre libri permette di rimuovere un certo numero di grandissime difficoltà teoriche del libro I, innanzitutto quelle che sono concentrate nella terribile sezione I (Merce e denaro), intorno alla famosa teoria del “valore-lavoro”.
Qui Althusser usa quel concetto di “teoria del valore-lavoro” che tanta fortuna ha avuto nei marxian studies e che alcuni studiosi [6] negano osservando come nel primo libro del Capitale tale parola non esista. Bisognerebbe forse dire così: se è vero che non esiste la parola “valore-lavoro” è però indubitabile che esista il concetto perché non si può davvero negare che per Marx la sostanza del valore sia il lavoro umano.
Preso in una concezione hegeliana della scienza (per Hegel non c’è scienza se non filosofica, e a questo titolo ogni vera scienza deve fondare la propria origine), Marx pensava allora che, “in ogni scienza, l’inizio è arduo”. Di fatto, la sezione I del libro I si presenta in un ordine di esposizione la cui difficoltà deriva in gran parte da questo pregiudizio hegeliano. Marx ha del resto steso una decina di volte questo inizio, prima di dargli la sua forma “definitiva”, come se inciampasse qui in una difficoltà che non era soltanto di semplice esposizione – e con buone ragioni.
Althusser non perde occasione per rimproverare a Marx di aver civettato con Hegel (come lo stesso Marx riconosce nel Poscritto [7] alla II edizione tedesca de Il Capitale) e, così facendo, di aver reso inutilmente complicato l’avvio del Il Capitale (come si ricorderà, in precedenza Althusser aveva persino suggerito di saltare la prima sezione per poi tornarvi solo dopo il completamento del testo)
Darò in poche parole il principio della soluzione. La teoria del “valore-lavoro” di Marx, che tutti gli “economisti” e ideologi borghesi gli hanno rimproverato con irrisorie condanne, è intelligibile, ma è intelligibile soltanto come un caso particolare di una teoria che Marx ed Engels hanno chiamato la “legge del valore”, o legge di ripartizione della quantità di forza-lavoro disponibile per i diversi settori della produzione, ripartizione indispensabile alla riproduzione delle condizioni di produzione. “Anche un bambino” la capirebbe, dice Marx fin dal 1868, in termini che smentiscono così l’inevitabile “arduo inizio” di ogni scienza. Sulla natura di questa legge, rinvio, fra gli altri testi, alle lettere di Marx a Kugelmann del 6 marzo e dell’11 luglio 1868 [8].
Althusser vuole mostrare che la difficoltà dell’inizio (che Marx riconosce [9]) in realtà non esiste e dipende solo dal linguaggio hegeliano adottato (ad esempio, come dirà, dall’aver preferito il termine “valore d’uso” a quello di “utilità” della merce)
La teoria del “valore-lavoro” non è il solo punto che presenti delle difficoltà nel libro I. Occorre ovviamente citare la teoria del plusvalore, bestia nera degli economisti e ideologi borghesi, che le rimproverano di essere “metafisica”, “aristotelica”, “inoperativa”, ecc. Ora, questa teoria del plusvalore è anch’essa intelligibile solo come caso particolare di una teoria più vasta: la teoria del pluslavoro. Il pluslavoro esiste in ogni “società”. Nelle società senza classi, una volta detratta la parte necessaria alla riproduzione delle condizioni di produzione, il pluslavoro viene suddiviso tra i membri della “comunità” (primitiva, comunista).
Questo punto è molto importante. Nella società capitalistica l’esistenza del pluslavoro è la condizione per l’esistenza del plusvalore; ma anche nella società socialista ogni membro della comunità mette a disposizione una quota di pluslavoro, ad esempio per garantire un equa redistribuzione verso quei membri che non possono materialmente contribuire alla ricchezza sociale: bambini, persone molto anziane, malati…
Nelle società classiste, una volta detratta la parte necessaria alla riproduzione delle condizioni di produzione, esso viene estorto dalle classi dominanti alle classi sfruttate. Nella società capitalistica di classe, in cui, per la prima volta nella storia, la forza lavoro diviene una merce, il pluslavoro estorto prende la forma di plusvalore.
Anche nella società capitalista una parte del pluslavoro sociale viene usata per la riproduzione sociale (e dunque anche per la riproduzione delle condizioni della produzione). È con il (valore del) pluslavoro destinato alla comunità che vengono costruite le scuole, gli ospedali, le ferrovie…
Ancora una volta, mi fermo qui, accontentandomi d’indicare il principio della soluzione la cui dimostrazione esigerebbe dettagliati argomenti.
Il libro I contiene ancora altre difficoltà teoriche, connesse alle precedenti o ad altri problemi.
Per esempio, la teoria della distinzione da introdurre tra il valore e la forma-valore; per esempio, la teoria della quantità di lavoro socialmente necessario; per esempio, la teoria del lavoro semplice e del lavoro complesso; per esempio, la teoria dei bisogni sociali, ecc. Per esempio, la teoria della composizione organica del capitale. Per esempio, la famosa teoria del “feticismo” della merce, e la sua ulteriore generalizzazione.
Tutti questi problemi – e molti altri ancora – costituiscono delle reali difficoltà oggettive, alle quali il libro I fornisce sia soluzioni provvisorie, che soluzioni parziali. Perché questa insufficienza?
Va bene, qui Althusser si lascia andare ad una serie di valutazioni buttate lì senza alcuna spiegazione e, come tali, del tutto irricevibili
Bisogna sapere che quando Marx ha pubblicato il libro I del Capitale, aveva già steso il libro II e una parte del libro III (quest’ultimo sotto forma di abbozzi). In ogni modo, come è provato dalla corrispondenza con Engels [10], aveva già “tutto in testa”, almeno in via di principio. Ma, materialmente, era escluso che Marx potesse mettere “tutto sulla carta” nel libro I di un’opera che doveva comportare quattro libri. Per di più, anche se Marx aveva “tutto in testa”, non disponeva, tuttavia, di tutte le risposte ai problemi che aveva in testa, – e in certi punti il libro I ne risente. Non è un caso se soltanto nel 1868, cioè un anno dopo l’uscita del libro I, Marx scrive che la comprensione della “legge del valore”, da cui dipende la comprensione della I sezione, è alla portato di un “bambino”.
Il lettore del libro I deve dunque convincersi di un fatto perfettamente comprensibile se si considera che Marx si inoltrava, per la prima volta nella storia della conoscenza umana, in un Continente vergine: il libro I contiene alcune soluzioni di problemi che saranno posti soltanto nei libri II, III e IV, – e taluni problemi le cui soluzioni non saranno dimostrate che nei libri II, III e IV.
È sostanzialmente da questo carattere di “sospensione”, o, se si preferisce, di “anticipazione”, che dipende la maggior parte delle difficoltà oggettive del libro I. Bisogna pertanto saperlo, e trarne le conseguenze, cioè leggere il libro I, tenendo conto dei libri II, III, e IV.
Anche questo, come quello del salto della prima sezione, è un suggerimento abbastanza difficile da seguire. O meglio, è un suggerimento che può essere seguito solo in successive riletture del testo (che sono certamente utili e necessarie per un testo come il Capitale). E comunque il fatto che Marx stesso fosse consapevole del legame stretto che sussisteva tra le prospettive da cui intendeva scrivere i vari tomi de Il Capitale lo si comprende abbastanza facilmente laddove si pensi alla struttura stessa del testo: il primo volume tratta della produzione, il secondo della circolazione, il terzo del rapporto dialettico tra produzione e circolazione. Di conseguenza, se esiste un rapporto dialettico tra produzione e circolazione allora la sola analisi della produzione o la sola analisi della circolazione sono necessariamente astrazioni usate per comodità di analisi e di esposizione, che possono rendere conto in modo completo della relazione complessa tra i due concetti. E d’altra parte, come si poteva studiare il rapporto dialettico tra produzione e circolazione senza avere già comunque fissato le linee essenziali del funzionamento della produzione e della circolazione?.
Esiste tuttavia un secondo ordine di difficoltà che costituiscono un ostacolo reale alla lettura del libro I. Queste difficoltà non dipendono più tanto dal fatto che Il Capitale comprende quattro libri, quanto da alcune sopravvivenze, nel linguaggio e perfino nel pensiero di Marx, dell’influsso del pensiero di Hegel.
Ho tentato una volta [11], come forse è noto, di difendere l’idea che il pensiero di Marx fosse fondamentalmente diverso dal pensiero di Hegel, e dunque che ci fosse tra Hegel e Marx una vera frattura, o rottura, come si vuole. Più vado avanti, e più penso che questa tesi sia giusta. Devo tuttavia ammettere di aver dato di questa tesi un’idea troppo netta, avanzando l’ipotesi che si poteva situare questa rottura nel 1845 (Tesi suFeuerbach, Ideologia tedesca). In realtà, qualcosa di decisivo inizia proprio nel 1845, ma è stato necessario a Marx un lungo lavoro di rivoluzione per giungere a registrare in concetti veramente nuovi la rottura realizzata con il pensiero di Hegel.
La famosa prefazione del 1859 (alla Critica dell’Economia politica) è ancora profondamente hegeliana-evoluzionista. I “Grundrisse”, che risalgono agli anni 1857-1859, sono anch’essi profondamente segnati dal pensiero di Hegel, di cui Marx aveva riletto con stupore la Grande Logica nel 1858.
Quando esce il libro I del Capitale (1867) rimangono ancora delle tracce dell’influenza hegeliana. Queste spariranno totalmente soltanto più tardi: la Critica del programma di Gotha (1875) [12] come pure le Note marginali su Wagner (1882) [13] sono totalmente e definitivamente esenti da ogni traccia di influenza hegeliana.
Per noi è dunque della massima importanza sapere da dove veniva Marx: veniva dal neo-hegelismo che era un ritorno di Hegel a Kant e a Fichte, poi dal feuerbachismo puro, poi dal fuerbachismo con annessioni di Hegel (i Manoscritti del ‘44) [14], prima di ritrovare Hegel nel 1858.
Ma occorre anche sapere dove andava. La tendenza del suo pensiero lo spingeva irresistibilmente ad abbandonare radicalmente, come si può vedere nella Critica del programma di Gotha del 1875 e nelle Note su Wagner del 1882, ogni ombra di influenza hegeliana. Abbandonando definitivamente ogni influenza di Hegel, Marx non cessò tuttavia di riconoscere un debito importante nei suoi confronti: quello di avere per primo concepito la storia come un “processo senza soggetto”.
E’ evidente che Althusser senza puzza di zolfo – pardon di hegelismo – un po’ dovunque. Ora, che Marx abbia un debito con Hegel e con alcune tendenze giovani hegeliane è piuttosto evidente. Marx nasce nel milieu politico e culturale della sinistra hegeliana.
E, come abbiamo detto, che nel Capitale Marx abbia civettato con il linguaggio di Hegel lo riconosce Marx stesso; ma allo stesso tempo Marx dice anche che quella di Hegel è una dialettica “mistificatoria” nei termini (idealistici) in cui Hegel la usa
“Ho criticato il lato mistificatore della dialettica hegeliana quasi trent’anni fa, quando era ancora la moda del giorno” [15]
“La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa” [16]
“Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca” [17]
Anche questa è una rottura piuttosto profonda con Hegel (magari non è il tipo di rottura che interessa a Althusser). Quanto poi alle “glosse” del 1875 e del 1882, pur importanti, sono certamente meno essenziali di altri scritti di Marx (a cominciare da Il Capitale stesso). E comunque se la rottura con Hegel si fosse completata davvero dobe la indica Althusser, quasi “in punto di morte”, che interesse avrebbe segnalarla? Il problema di Althusser è che non vuole capire che il superamento di Hegel da parte di Marx è proprio un superamento di tipo “hegeliano”, un Aufhebung, nel quale viene sempre conservata una parte di ciò che viene superato}.
È tenendo conto di questa tendenza che possiamo apprezzare le tracce di influenza hegeliana che sussistono nel libro I come sopravvivenze in via di superamento.
Ho già segnalato queste tracce nel problema, tipicamente hegeliano, dell’“arduo inizio” di ogni scienza, di cui la sezione I del Libro I è la manifestazione clamorosa. Per la precisione, questa influenza hegeliana può essere localizzata nel vocabolario di cui Marx si serve in questa sezione nel fatto che egli parla di due cose totalmente differenti, l’utilità sociale dei prodotti da una parte, e il valore di scambio dei medesimi prodotti dall’altra, con espressioni che hanno effettivamente una parola in comune, la parola “valore”: da una parte valore d’uso, dall’altra valore di scambio. Se Marx mette alla gogna il già citato Wagner (questo vir obscurus) con il vigore che sappiamo nelle Note marginali del 1882, è perché Wagner fa finta di credere che, dal momento che Marx si serve in entrambi i casi della medesima parola “valore”, il valore d’uso e il valore di scambio siano derivati da una scissione (hegeliana) del concetto di “valore”. Il fatto è che Marx non aveva preso la precauzione di eliminare la parola valore dall’espressione “valore d’uso”, e di parlare molto semplicemente, come avrebbe dovuto, di utilità sociale dei prodotti. È qui che si vede perché Marx ha potuto, nel 1873, nel Poscritto alla seconda edizione tedesca del Capitale, ritornare su se stesso, e riconoscere di avere perfino rischiato, “nel capitolo sulla teoria del valore” (per l’appunto la sezione I), di “civettare” (kokettieren) “con il modo di esprimersi peculiare di Hegel”. Ne dobbiamo trarre le conseguenze: cioè supporre al limite che si riscriva la sezione I del Capitale, in modo che essa divenga un “inizio” non più così “arduo”, ma semplice e facile.
In verità è assai dubitabile che la semplice ri-denominazione della locuzione “valore d’uso” con quella di “utilità” – o anche con quella di “utilità sociale” (con il termine sociale che però è sostanzialmente superfluo in quanto evidente) – possa rendere molto meno ardua la I sezione de Il Capitale. Certamente la ri-denominazione può essere utile (sebbene esistano teorie secondo le quali questo tipo di ri-denominazione sarebbe inopportuno)
La medesima influenza hegeliana emerge nell’imprudente formula del capitolo XXXII della sezione VIII del libro I, in cui Marx, parlando della “espropriazione degli espropriatori”, dichiara: “è la negazione della negazione”. Imprudente: perché essa non ha cessato di far danni, nonostante Stalin abbia avuto, da parte sua, ragione a sopprimere la “negazione della negazione” dalle leggi della dialettica, anche se a vantaggio di altri errori ancora più gravi.
Anche qui Althusser denuncia l’uso di un linguaggio hegeliano, ma non spiega perché esso sia sbagliato. Quello delle critiche buttate lì senza spiegazione non è un metodo accettabile.
Ultima traccia dell’influenza hegeliana, e questa volta flagrante ed estremamente dannosa (poiché tutti i teorici della “reificazione” e dell’“alienazione” vi hanno trovato di che “fondare” le loro interpretazioni idealiste del pensiero di Marx): la teoria del feticismo (“Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”, IV parte del capitolo I della sezione I).
In realtà non si comprende affatto. Si capisce solo che Althusser è ostile a tutto quanto suona di hegeliano nel testo di Marx, ma senza offrire molte spiegazioni di questa ostilità; invece di lanciare anatemi sarebbe stato molto più istruttivo spiegare perché non condivide alcuni passaggi. Ad esempio la quarta parte del primo capitolo – la parte dedicata al “feticismo della forma di merce” – è molto interessante da diversi punti di vista (e che importa se qualcuno – Lukacs? – l’ha usata per la sua teoria della reificazione). Proprio nella parte sul feticismo Marx parla del socialismo, ovvero della società dei produttori associati. Liquidare tutto con una boutade un po’ tranchant verso una singola frase (sugli espropriati e gli espropriatori) perché rea di interpretare la diabolica formula hegeliana della “negazione della negazione” è un atteggiamento davvero poco interessante.
Si comprenderà come io non possa dilungarmi qui su questi vari punti, che esigerebbero una completa dimostrazione. Appunto, come si era detto
Li segnalo tuttavia perché, assieme alla molto ambigua e (ahimè!) celebre prefazione a Per la critica dell’Economia politica (1859), l’hegelismo e l’evoluzionismo (essendo l’evoluzionismo l’hegelismo dei poveri) di cui sono pieni hanno causato danni devastanti nella storia del Movimento operaio marxista. Segnalo che nemmeno per un solo istante Lenin ha ceduto all’influsso di queste pagine hegeliano-evoluzioniste, senza di che non avrebbe potuto combattere il tradimento della II Internazionale, edificare il Partito bolscevico, conquistare, alla testa delle masse popolari russe, il potere dello Stato per instaurare la dittatura del Proletariato, e impegnarsi nella costruzione del socialismo.
Quello che intende dire Althusser è che nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica Marx sembra assumere – secondo lui, ovviamente – una postura evoluzionistica, deterministica, ereditata dallo storicismo hegeliano. E si ricordi che la critica dello storicismo è una delle critiche fondamentali che Althusser rivolge al “giovane Marx” (anche se, nel 1859 Marx, non è più tanto giovane e la “rottura epistemologica” si era già consumata da tempo). Tra l’altro, uno dei motivi di interesse di questo brano, consiste nel fatto che Althusser rivede la propria teoria della “rottura epistemologica” di Marx, spostandola molto in avanti nel tempo ovvero ravvisando un legame con Hegel che perdura fino alla metà degli anni ‘70 dell’’800.
Tradotto in termini politici, secondo Althusser Marx avrebbe un approccio “menscevico” e “bernsteiniano” vero il tema del mancato sviluppo delle forze produttive come condizione per la rivoluzione sociale; un approccio che Lenin invece non avrebbe.
Segnalo anche che, per sventura dello stesso Movimento comunista internazionale, Stalin ha fatto della prefazione del 1859 il suo testo di riferimento, come si può constatare nel capitolo della Storia del Partito comunista (bolscevico) intitolato: Materialismo dialettico e materialismo storico (1938), ciò che spiega indubbiamente molte cose di quello che si chiama, con un termine che non ha niente di marxista, “il periodo del culto della personalità”. Ritorneremo altrove su questa questione. Meglio lasciare perdere, invece
Aggiungo ancora qualche parola, per evitare al lettore del libro I un gravissimo malinteso, che questa volta non ha più niente a che vedere con le difficoltà di cui ho parlato, ma dipende dalla necessità di leggere molto da vicino il testo di Marx.
Questo malinteso concerne l’oggetto di cui si tratta a partire dalla II sezione del libro I (Latrasformazione del denaro in capitale). Marx parla qui in effetti della composizione organica del capitale, dicendo che, nella produzione capitalistica, esiste, per ogni capitale dato, una frazione (diciamo il quaranta per cento) che costituisce il capitale costante (materie prime, edifici, macchine, strumenti), e un’altra frazione (diciamo dunque il sessanta per cento) che costituisce il capitale variabile (spese d’acquisto della forza-lavoro).
Il capitale costante è così chiamato perché rimane costante nel processo di produzione capitalistica: non produce nuovo valore, rimane dunque costante. Il capitale variabile è detto variabile perché produce un valore nuovo, superiore al suo valore precedente, tramite il gioco dell’estorsione del plusvalore (che avviene nell’uso della forza-lavoro).
Ora, la grandissima maggioranza dei lettori, compresi naturalmente gli “economisti” che sono, oserei dire, votati, per la propria deformazione professionale di tecnici della politica economica borghese, a questa “cantonata”, crede che Marx elabori, a proposito della composizione organica del capitale, una teoria dell’impresa, o, per impiegare dei termini marxisti, una teoria dell’unita di produzione. Eppure Marx dice chiaro e tondo il contrario: egli parla sempre della composizione del capitale sociale totale, ma avvalendosi di un esempio dell’aspetto concreto quando fornisce delle cifre [per esempio su cento milioni, capitale costante = quaranta milioni (quaranta per cento) e capitale variabile = sessanta milioni (sessanta per cento)]. Marx non parla dunque, in questo esempio numerico, dell’una o dell’altra impresa, ma di una “frazione del capitale totale”.
Questa precisazione di Althusser è molto giusta. Marx parla del capitale totale della società capitalistica o di un suo ramo produttivo. Il Capitale non è uno studio di microeconomia; non è, come dice giustamente Althusser, una teoria della singola impresa capitalistica. Il capitalista, Marx lo spiega molto bene, è una maschera e precisamente la maschera di un certo ruolo sociale.
Egli ragiona, per comodità del lettore e per “chiarirgli le idee”, su un esempio “concreto” (e dunque numerico), ma questo esempio concreto gli serve semplicemente da esempio per parlare del capitale sociale totale.
Da questo punto di vista, segnalo che non si trova in nessuna parte del Capitale né una teoria dell’unità di produzione, né una teoria dell’unità di consumo capitalistiche. Su questi due punti, la teoria di Marx deve dunque essere completata.
Non esiste una teoria del singolo capitalista o del singolo lavoratore o del singolo consumatore… perché una tale teoria non è interessante per l’analisi del funzionamento del modo di produzione capitalistico. Non c’è dunque nulla da completare. I funzionamenti specifici si possono studiare solo in modo specifico mentre Marx ha l’ambizione di studiare i meccanismi di carattere generale, attraverso un processo di astrazione determinata. Chi vuole un’analisi del funzionamento, poniamo, dello specifico settore della produzione di computer a Taiwan nel 2022 dovrà procurarsi i dati che riguardano quel settore specifico in quello specifico arco temporale in quella specifica realtà geografica.
Ma fatto questo sarà ancora interessante misurare la variazione della composizione organica di capitale o del saggio di profitto annuale delle imprese taiwanesi produttrici di PC per valutarne le performances.
Segnalo inoltre l’importanza politica di questa confusione, che è stata definitivamente dissipata da Lenin nella sua teoria dell’Imperialismo [18]. Si sa che Marx progettava di parlare nel Capitale del “mercato mondiale”, cioè dell’estensione tendenziale al mondo intero dei rapporti di produzione capitalistici. Questa “tendenza” ha trovato la sua forma compiuta nell’Imperialismo. È molto importante misurarne la portata politica decisiva, che Marx e la prima Internazionale avevano perfettamente colto.
Infatti, se lo sfruttamento capitalistico (estorsione del plusvalore) esiste nelle imprese capitalistiche dove sono occupati gli operai salariati (e gli operai ne sono le vittime e quindi i testimoni diretti), questo sfruttamento locale non esiste che come semplice parte di un sistema di sfruttamento generalizzato, che si estende progressivamente dalle grandi imprese industriali urbane alle imprese capitalistiche agricole, e via via alle forme complesse degli altri settori (artigianato urbano e rurale: aziende “agricole familiari”, impiegati e funzionari, ecc.) non soltanto in un paese capitalista, ma nell’insieme dei paesi capitalisti, e infine nel resto del mondo intero (mediante lo sfruttamento coloniale diretto che poggia sull’occupazione militare: colonialismo; ed indiretto, senza occupazione militare: neo-colonialismo).
Esiste dunque una vera Internazionale capitalista di fatto, divenuta, a partire dalla fine del XIX secolo, l’Internazionale imperialista, alla quale il Movimento operaio e i suoi grandi dirigenti (Marx e poi Lenin) hanno risposto con una Internazionale operaia (la prima, la seconda e poi la terza Internazionale). I militanti operai riconoscono questo fatto nella loro pratica di Internazionalismo proletario. Concretamente, ciò significa che essi sanno molto bene:
1) che sono direttamente sfruttati nell’impresa (unità di produzione) capitalistica in cui lavorano;
2) che non possono condurre la lotta unicamente sul piano della loro sola impresa, ma che devono condurre la lotta anche sul piano della loro produzione nazionale (federazioni sindacali della Metallurgia, dell’Edilizia, dei Trasporti, ecc.), poi sul piano dell’insieme nazionale del vari settori della produzione (per esempio: Confederazione generale dei lavoratori), poi sul piano mondiale (per esempio: Federazione sindacale mondiale) .
Questo per quanto riguarda la lotta di classe economica.
Lo stesso dicasi naturalmente, nonostante la sparizione formale dell’Internazionale, per quanto riguarda la lotta di classe politica. È perciò che bisogna leggere il libro I alla luce non soltanto del Manifesto (“Proletari di tutti i paesi, unitevi!”), ma anche degli statuti della prima Internazionale, della seconda e della terza, e beninteso alla luce della teoria leninista dell’imperialismo. Dire questo, non è affatto uscire dal libro I del Capitale, e mettersi a “fare politica” a proposito di un’opera che, sembrerebbe, tratta solo di “economia politica”. È, al contrario, prendere sul serio il fatto che Marx ha, con una prodigiosa scoperta, aperto alla conoscenza scientifica e alla pratica cosciente degli uomini un nuovo continente, il Continente-storia, e che, come la scoperta di ogni nuova scienza, questa scoperta si è prolungata nella storia di questa scienza e nella pratica politica degli uomini che in essa si sono riconosciuti. Se Marx non ha potuto scrivere il capitolo del Capitale che progettava di redigere con il titolo “Mercato mondiale”, fondamento dell’Internazionalismo proletario, in replica all’Internazionale capitalistica e poi imperialistica, la prima Internazionale, fondata da Marx nel 1864, aveva già cominciato a scrivere nei fatti, tre anni prima della pubblicazione del libro I del Capitale, quel medesimo capitolo di cui Lenin ha scritto il seguito, non soltanto nel suo libro L’Imperialismo, stadio supremo del capitalismo, ma anche nella fondazione della terza Internazionale (1919).
Anche questa osservazione di Althusser è condivisibile (anche se non è chiaro a cosa serva). In effetto l’epoca di Marx è ancora un’epoca di “capitalismo concorrenziale” (almeno in certa misura), di colonialismo, di nascita del marcato mondiale…; l’epoca di Lenin è invece un’epoca di imperialismo ovvero un’epoca di crescente concentrazione di capitali (anche se ancora niente rispetto a quella attuale), di azioni di cartello anti-concorrenza, di sviluppo del mercato mondiale e di suddivisione capitalistica del pianeta.
Tutto ciò, ovviamente, è, se non incomprensibile, almeno molto difficile da comprendere se si è un “economista” o anche uno “storico”, e a maggior ragione se si è un semplice “ideologo” della borghesia. Tutto ciò è, in compenso, molto facile da comprendere se si è un proletario, vale a dire un operaio salariato “impiegato” nella produzione capitalistica (urbana o agricola).
Perché questa difficoltà? Perché questa relativa facilità? Credo d’averlo ricordato, sulla base dei testi stessi di Marx e delle precisazioni fornite da Lenin quando, nei primi volumi delle sue Opere, commenta il Capitale di Marx. Infatti gli intellettuali borghesi o piccolo-borghesi hanno un “istinto di classe” borghese (o piccolo-borghese), mentre i proletari hanno un istinto di classe proletario.
La teoria dell’istinto proletario è quanto di più fantasioso esista. Se c’è qualcosa di cui i proletari non sono dotati è proprio un istinto (sempre che non si consideri l’istinto proletario la tendenza a non avere una propria visione del mondo e ad accettare qualsiasi livello di sfruttamento, schiavitù, servitù, morte…). Quella dell’istinto proletario è una teoria fuorviante che non permette di cogliere i meccanismi di “interiorizzazione dell’esteriorità”, per dirla con Bourdieu, che sono ben noti in sociologia. Questi meccanismi, è chiaro, non sono definitivi, ma storicamente determinati e dipendono (anche) dal livello di autonomia del proletariato.
I primi, accecati dall’ideologia borghese, che fa di tutto per nascondere lo sfruttamento di classe, non possono vedere lo sfruttamento capitalistico. I secondi, al contrario, nonostante l’ideologia borghese e piccolo-borghese che pesa terribilmente su di essi, non possono non vedere questo sfruttamento, poiché esso costituisce la loro vita quotidiana.
In realtà “vedere” la propria vita quotidiana è già un livello di autocoscienza – oibò, parola hegeliana!! – che non è per nulla spontaneo e tanto meno spontaneo è saper generalizzare la propria condizione in termini di relazioni di potere tra classi sociali.
Hegel pensa storicisticamente – e anche un po’ deterministicamente – che l’autocoscienza sia un prodotto necessario dell’evoluzione storica. In verità l’approccio giusto è quello di Lenin: le lotte economico-sociali dei lavoratori più la teoria e l’organizzazione rivoluzionaria. Ma è anche l’approccio di Marx che non ha passato tutta la vita solo a studiare, ma anche a promuovere organizzazioni dei lavoratori: dalla Lega dei comunisti all’Associazione Internazionale dei lavoratori.
La necessità di una soggettività politica capace di stimolare – non di determinare – il processo della coscienza è oggi molto più chiara di quanto non lo fosse ai tempi in cui il movimento operaio internazionale era più forte.
Se guardiamo ai decenni che abbiamo alle spalle cosa vediamo? Vediamo che non solo la classe operaia non ha visto crescere la propria capacità di opposizione sociale, ma che questa capacità è stata quasi completamente annullata e resiste solo in alcune dimensioni particolari come le cooperative, la logistica, il lavoro degli immigrati in generale; questo vuol dire che tra condizione sociale e coscienza di tale condizione, tra coscienza della propria condizione e organizzazione della resistenza, tra resistenza e progetto di trasformazione… non c’è alcuna relazione di necessità.
Per comprendere Il Capitale, e dunque il suo libro I, occorre “giungere a posizioni di classe proletarie”, cioè situarsi nella sola ottica che rende visibile la realtà dello sfruttamento della forza-lavoro salariata, che è l’essenza del capitalismo.
Fatte le debite proporzioni, ciò è relativamente facile per gli operai, a condizione che lottino contro l’influenza dell’ideologia borghese e piccolo-borghese che pesa su di loro. Poiché possiedono “per natura” un “istinto di classe” formatosi alla rude scuola dello sfruttamento quotidiano, è loro sufficiente un’istruzione supplementare, politica e teorica, per comprendere oggettivamente ciò che sentono soggettivamente, istintivamente.
Qui Althusser gioca un po’ con parole come “istinto” o “natura”. Ma il punto essenziale è che sembra precisare il suo precedente ragionamento. Specifica infatti che i lavoratori, essendo sfruttati, potrebbero capire cosa sia lo sfruttamento più facilmente di quanto non possano farlo coloro che sfruttati non sono (come gli intellettuali più affermati o gli stessi sfruttatori). Ma questa comprensione è collegata a due condizioni: lottare “contro l’influenza dell’ideologia borghese e piccolo-borghese” (che però sembra essere possibile solo a patto di aver già raggiunto la comprensione che esiste una certa dinamica delle classi sociali e dei meccanismi di influenza dell’ideologia dominante); avere acquisito “un’istruzione supplementare, politica e teorica”.
Sicuramente queste due condizioni – che Il Capitale può contribuire a realizzare – permettono ai lavoratori di comprendere chiaramente la propria condizione di sfruttamento e di impostare la strada verso la propria reale emancipazione politica.
Il Capitale offre loro questo supplemento di educazione teorica, sotto forma di spiegazioni e dimostrazioni oggettive, che li aiutano a passare dall’istinto di classe proletario a una posizione (oggettiva) di classe proletaria.
Forse la formula di Althusser si sarebbe potuta riscrivere in questo modo: affiancare la condizione di classe oggettiva con una posizione di classe soggettiva. Qualcuno, un po’ hegelianamente, avrebbe parlato di un passaggio dall’essere classe “in sé” all’essere classe “per sé”
Ma ciò è estremamente difficile per gli specialisti e gli altri “intellettuali” borghesi e piccolo-borghesi (compresi gli studenti). Perché una semplice educazione della loro coscienza non basta, e tanto meno la semplice lettura del Capitale. Devono compiere una vera rottura, una vera rivoluzione nella loro coscienza per passare dal loro istinto di classe necessariamente borghese o piccolo-borghese a posizioni di classe proletarie.
E’ estremamente difficile, ma non assolutamente impossibile. Ne sono la prova lo stesso Marx, che era figlio di buona borghesia liberale (padre avvocato), ed Engels, di alta borghesia capitalistica, capitalista egli stesso a Manchester, per vent’anni. {Engels capitalista per 20 anni? Diciamo, dipendente dell’impresa capitalistica (del padre) come d’altra parte gli operai di quell’impresa. Ah, l’amore per le boutade…}.
Tutta la storia intellettuale di Marx può e deve essere compresa come una lunga, difficile e dolorosa rottura, per passare dal proprio istinto di classe piccolo-borghese a quelle posizioni di classe proletaria, che egli stesso ha contribuito in maniera decisiva a definire nel Capitale.
È un esempio che può e deve essere meditato, ricordando altri illustri esempi: in primo luogo quello di Lenin, figlio di un piccolo-borghese illuminato (istitutore progressista), e divenuto la guida della Rivoluzione d’ottobre e del proletariato mondiale, nello stadio dell’Imperialismo, stadio supremo, cioè ultimo, del capitalismo.
Note
[1] Editions Costes, Paris. (Trad. it. Teorie sul plusvalore, a cura di E. Giorgetti, Roma, 1961; ma anche Storia delle teorie economiche, voll. 3, a cura di E. Conti, Torino, 1954. Quest’ultima edizione si basa sul testo del IV libro del Capitale approntato da K. Kautsky).
[2] Il libro II nel 1885, il libro III nel 1894, il libro IV nel 1905.
[3] Edizioni Dietz, Berlino.
[4] Editions Sociales, Paris, per i libri I, II, III. Editions Costes, Paris, per il libro IV. (Per le traduzioni italiane vedi nota 7).
[5] Cfr. il testo della lettera di Marx a La Châtre, il suo traduttore francese. (Trad. it. in Lettere sul Capitale, Bari, 1971, pag. 145).
[6] Come Roberto Fineschi in Introduzione a Il Capitale, La città del sole, Napoli.
[7]“Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore, e ho perfino civettato qua e là, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare.”
[8] Cfr. Lettres sur le Capital, Editions Sociales, Paris, pp. 197 e 229. (Trad. it. Lettere a Kugelmann, Roma, 1969, pp. 66 e 77; ma si vedano anche le già citate Letteresul Capitale).
[9] Karl Marx, Prefazione alla prima edizione de Il Capitale, 1867: “Il detto «ogni inizio è difficile» vale per tutte le scienze. Perciò la comprensione del primo capitolo e specialmente della sezione che contiene l’analisi della merce presenterà maggior difficoltà degli altri.”
[10] Lettres sur le Capital, Editions Sociales, Paris. (Trad. it. Carteggio Marx-Engels, voll. 6, Roma, 1951).
[11] Cfr. Pour Marx, Editions Maspero, Paris, 1965. (Trad. it. Per Marx, Roma, 1967).
[12] Editions Sociales, Paris. (Trad. it. Critica del programma di Gotha, Milano, 1968).
[13] Editions Sociales, Paris. (Trad. it. in Scritti inediti di economia politica, a cura di M. Tronti, Roma, 1963, pp. 167-183).
[14] Editions Sociales, Paris. (Trad. it. Manoscrittieconomico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Torino, 1970).
[15] Poscritto alla II edizione tedesca de Il Capitale.
[16] Ibidem
[17] Ibidem
[18] L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (Trad. it. Roma, 1964).