Samih Al Kassem | Testamento
Da “Versi della Resistenza”, pubblicazione dell’Unione Generale degli studenti palestinesi in Italia, maggio 1971
Rivolta araba
Da “Versi della Resistenza”, pubblicazione dell’Unione Generale degli studenti palestinesi in Italia, maggio 1971
Da “Versi della Resistenza”, Unione Generale degli studenti palestinesi in Italia, maggio 1971
Da “Versi della Resistenza”, Unione Generale degli studenti palestinesi in Italia, maggio 1971
Un volantino del 2006 del Laboratorio Marxista. Sono passati 8 anni, ma le cose per il popolo palestinese non sono cambiate, ancora sotto l’assedio criminale di Israele, nell’indifferenza –...
Nell’anteprima del suo editoriale per il numero di marzo di Limes, Lucio Caracciolo scrive:
Segno dei tempi che ricorrono, l’Iran è di nuovo nel mirino. E con l’Iran è nel mirino la Siria, che ne costituisce il principale alleato nella regione e che è oggi scossa da una guerra civile fomentata ad arte dagli “amici della democrazia” che siedono a Washington, a Parigi, a Londra, ad Ankara. Ancora una volta la banda di predoni imperialisti capitanata dagli USA (e nel caso specifico coadiuvata dalla Turchia) si presenta a portare un po’ di democrazia “made in USA”. E quando questi banditi internazionali portano la loro democrazia son bombe che fischiano.
Per sviluppare una riflessione sulla situazione siriana è necessario collocarla all’interno del tentativo di ristrutturazione dell’egemonia nord-americana ed europea in atto da anni in Medio Oriente. Dobbiamo legare il particolare contesto siriano con il più generale quadro internazionale che si caratterizza, da un lato, per le cosiddette “rivolte arabe” e per i loro discutibili esiti attuali [1] e, dall’altro, per la crisi economica di lunga durata del modo di produzione capitalistico, vera forza motrice di questi avvenimenti.
Download Antiper, Commento a Le radici economiche delle sollevazioni in Africa Settentrionale, PDF, MOBI
Download Francesco Macheda – Roberto Nadalini, Le radici economiche delle sollevazioni in Africa Settentrionale, 2011, PDF
Questo lavoro di Francesco Macheda e Roberto Nadalini è utile non solo perché è ricco di dati e correlato da un’ampia bibliografia, ma anche per l’approccio metodologico che possiamo considerare di impronta materialistica; gli autori, infatti, provano a collocare le rivolte in Nord Africa [2] dentro un quadro di lungo periodo che inizia negli anni ’70; ironizzano sul ruolo della “chiamata via Internet” e considerano limitata la lettura delle rivolte come di semplici esplosioni anti-despota (Ben Alì, Mubarak). Secondo gli autori le rivolte vanno invece inserite in un ragionamento più complessivo ed articolato che richiama anche gli effetti della crisi alimentare che ha investito il Nord Africa, le sue cause strutturali e il ruolo svolto dai paesi imperialisti in quel contesto.
L’esito delle elezioni egiziane e la vittoria del candidato dei Fratelli Mussulmani (Mursi) contro Shafiq (l’ultimo Primo Ministro dell’era Mubarak), così come la vittoria elettorale della Fratellanza Mussulmana in Tunisia (e se vogliamo, anche il sempre maggiore protagonismo nelle recenti elezioni libiche e nella ribellione in Siria), prefigurano l’emergere di una nuova leadership politica regionale, religiosa ma non ostile agli USA; un “islam politico” ben diverso da quello contro cui l’”Amerika” aveva lanciato i suoi strali (lo “scontro di civiltà” di Huntington) e le sue bombe (la “guerra al terrorismo” di Bush).
Un “islam politico” che non brucia le bandiere del “Satana yankee” e che vede gli Stati Uniti come alleato nel ridisegnare lo scenario del Grande Medio Oriente. D’altronde, lo stesso Obama, già nel 2009, nel suo discorso all’Università del Cairo rivendicava “Un nuovo inizio fra mussulmani ed USA che non devono essere in competizione” e auspicava“l’inaugurazione di una nuova era. Islam e USA hanno interessi comuni che possiamo realizzare solo insieme” [1]. Se questa nuova era è iniziata, le rivolte del 2011 ne sono state la levatrice.
Fin dall’inizio della “primavera” siriana, il governo di Damasco ha affermato di combattere bande di terroristi. La maggior parte dei media occidentali denunciano questa tesi come propaganda di Stato, che serve per giustificare la repressione contro i movimenti di contestazione. Mentre è evidente che questa tesi è sacrosanta per lo Stato baathista, di reputazione poco accogliente verso i movimenti di opposizione che sfuggono al suo controllo, questa supposizione non è nemmeno sbagliata. Effettivamente, molteplici elementi senza ombra di dubbio accreditano la tesi del governo siriano.
Stupisce constatare che sugli eventi che scuotono Nord Africa e Medio Oriente dall’inizio dell’anno pochi abbiano voluto approfondire l’analisi e molti si siano affrettati a elargire generosamente patenti rivoluzionarie a destra e a manca
Se si osserva la carta geo-politica dell’Africa e del Medio Oriente una cosa salta all’occhio: molto spesso, i confini sembrano tracciati con la riga; linee rette separano un paese dall’altro, spesso in modo del tutto arbitrario e apparentemente ingiustificato. È l’eredità del periodo coloniale, il risultato di successive spartizioni.
Da alcuni anni, il termine “digital divide” viene usato per indicare il crescente divario a livello tecnologico-digitale tra le varie aree del pianeta. L’analisi del digital divide misura il distacco tra paesi ad alto tasso e paesi a basso tasso di sviluppo tecnologico.
L’assetto politico che dominava in Italia nel 1922 – anno della “marcia su Roma” – era stato oggetto per oltre due anni di una dura offensiva politica da parte di una serie di movimenti di lotta (riassunti sotto la denominazione storica di “Biennio rosso”). In questi 2 anni, mobilitazioni per il pane, occupazioni delle fabbriche e delle terre, formazione di Consigli di Fabbrica “politici”, ammutinamenti di guarnigioni militari… avevano mostrato la chiara volontà di quella profonda trasformazione che allora si riassumeva nello slogan “facciamo come in Russia”.
Una delle tendenze più deleterie e longeve della sinistra è certamente quella di enfatizzare acriticamente ogni movimento sociale che si presenta sulla scena e di esaltarne la spontaneità come la più grande delle virtù. Non si rende conto, questa sinistra, che niente è meno spontaneo di un movimento “spontaneo” giacché la spontaneità altro non è che la libera espressione di tutte le forme di condizionamento e “socializzazione” a cui ciascuno di noi è sottoposto, sin dalla nascita, dal sistema di relazioni in cui è immerso. Senza contare che la spontaneità dei movimenti è quasi sempre la ragione del loro insuccesso.
Quello arabo è certamente un mondo variegato, stimolante, tendenzialmente un po’ criptico anche per ragioni legate alle diverse storie e alle diverse culture che lo compongono che spesso tendiamo ad appiattire perché non sappiamo coglierne stratificazioni e specificità
Come tanti altri paci-finti, anche il non-a-caso-Premio-Nobel Sig. Fo Dario [1] (assieme alla di Lui consorte, la recidiva Sig.ra Rame Franca, già ri-finanziatrice di guerra in Afghanistan in qualità di parlamentare IDV) si appella all’ONU attribuendo a questo organismo l’autorevolezza di rappresentare la “volontà del mondo” (come se il fatto che un’ipotetica maggioranza possa decidere un’aggressione militare faccia perdere un grammo di legittimità alla minoranza che questa aggressione avversa).
Gli effetti del crack finanziario internazionale del 2007-2008 hanno investito, ovviamente, anche i paesi del Nord-Africa e del Medio Oriente, che hanno subito una secca inversione di rotta rispetto ad una precedente fase di significativa crescita del PIL pro-capite anche a fronte di una crescita demografica molto sostenuta.
I simboli sono importanti. Certo, dietro ogni simbolo può nascondersi qualcosa che non ha nulla a che fare con quel simbolo. Dietro il richiamo all“intervento umanitario” possono nascondersi intenzioni tutt’altro che umanitarie. Indiscutibile. Ma se vogliamo dire che dietro allo sventolio di bandiere cirenaico-monarchiche o di bandiere francesi (che in Africa del Nord richiamano soprattutto l’intervento colonialista e non certo il 1789) si “nascondono” intenzioni rivoluzionarie bisogna dimostrarlo e spiegare perché il nuovo si ammanta dei colori del vecchio.
Quando pensiamo al grado di “inimicizia” verso gli interessi dei lavoratori ognuno di noi ha, in modo più o meno consapevole, una propria scala di priorità: noi, ad esempio, riteniamo che il nemico principale della possibilità di sviluppo sociale dell’umanità sia oggi l’imperialismo ovvero il capitalismo dell’epoca dei monopoli, della finanza, dell’esportazione dei capitali, ecc…
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