Marco Riformetti | Umberto Massola e gli scioperi del marzo-aprile 1943. Elementi del contesto storico-sociale
Tratto da Marco Riformetti, Umberto Massola e gli scioperi del marzo-aprile 1943, Paper per l’esame di Storia dell’Italia Contemporanea, Storia e civiltà, Pisa, giugno 2022
Gli scioperi del marzo-aprile 1943 avvengono nel pieno della Seconda guerra mondiale in una fase in cui il regime fascista, al potere da circa un ventennio, comincia a mostrare alcuni sintomi di crisi; già dall’autunno del 1942 sono iniziati i bombardamenti anglo-americani sull’Italia del nord e la situazione è diventata difficilissima anche in Africa; da Stalingrado (dove i tedeschi si arrendono il 2 febbraio 1943) parte la controffensiva contro il Terzo Reich.
1.1 La situazione economica e sociale dell’Italia
All’inizio del 1940 il grande capitale italiano e i grandi “commis” di Stato sono preoccupati per l’imminente coinvolgimento dell’Italia nel conflitto che può mettere fine ai buoni affari che le imprese settentrionali stanno facendo grazie al riarmo dei paesi belligeranti [1]; invece, il 10 giugno Mussolini dichiara l’entrata in guerra con il famoso discorso pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia.
In questa fase il paese soffre un importante deficit delle finanze che viene tamponato attraverso l’introduzione di nuove imposte e l’emissione di titoli del debito pubblico; ma la guerra rende inefficace ogni misura adottata per frenare la catastrofe economica.
Diminuisce la ricchezza prodotta
«Prendendo come riferimento il 1938 (= 100), si osserva il seguente andamento: 109 nel 1939, 110 nel 1940, 103 nel 1941, 89 nel 1942, 74 nel 1943» [2]
«In quasi tutti i settori la produzione industriale cedette di schianto e così pure il morale della popolazione. Furono questi i prodromi della crisi politica del regime» [3]
La guerra è dunque al centro dei processi storici e sociali, a cominciare dalla diffusione della povertà che alimenta la rabbia popolare. Ed è proprio su questa rabbia che gli antifascisti intendono far leva nella costruzione del fronte anti-regime.
1.2 La forza e la rabbia dei lavoratori
La guerra genera carenza di manodopera, soprattutto specializzata; molti uomini sono al fronte e molti altri sono stati “prestati” alla Germania per sostenerne lo sforzo produttivo bellico. Teoricamente, la carenza di manodopera garantisce ai lavoratori una maggiore forza “strutturale” [4] che si manifesta in fenomeni apparentemente inspiegabili come quello della “mobilità volontaria” [5] (in sostanza, le dimissioni per trovare impieghi migliori).
In realtà questo meccanismo (classico in un mercato del lavoro normale) è forse un po’ sovrastimato nella situazione speciale di un regime fascista e per diversi fattori: il primo fattore riguarda i meccanismi di “mobilitazione civile” che, soprattutto in tempo di guerra, vengono messi in moto ed ai quali non è facile sottrarsi (siamo in guerra e si deve dare il proprio contributo anche accettando paghe inferiori e fatiche maggiori, sentendosi fortunati per non trovarsi al fronte); il secondo fattore ha a che fare con la cronica scarsezza di materie prime che talvolta blocca la produzione e rende transitoriamente “eccedente” la manodopera (riducendo o addirittura annullano il suo “potere strutturale”); un terzo fattore riguarda il fatto che il meccanismo della “mobilità volontaria” può funzionare in qualche caso individuale e persino in qualche piccola dimensione collettiva, ma non può essere una prassi generalizzata perché avrebbe l’effetto di una riduzione generalizzata della disciplina e di un aumento generalizzato dei salari.
Ma c’è anche un ulteriore fattore di controtendenza che riguarda i flussi migratori interni degli anni ‘30 verso le due grandi città industriali del nord; a Torino, ad esempio, le grandi commesse belliche non riescono ad assorbire un aumento della popolazione che nel decennio 1929-38 è valutabile nell’ordine delle 100.000 unità [6].
Questo vuol dire che sebbene la guerra porti via molti lavoratori (anche attraverso il trasferimento di numerosi operai italiani nelle fabbriche tedesche [7]) questo non vuol dire che la loro scarsità sia poi così acuta.
Non bisogna dunque sovrastimare la forza oggettiva della classe operaia e la sua capacità spontanea di proporre azioni di lotta eclatanti senza l’intervento di alcuno stimolo politico. Scendere in lotta nel 1943 è molto difficile e produce dure reazioni da parte del regime, soprattutto verso quelli che vengono individuati come i “caporioni”. La guardie metropolitane vengono inviate nelle fabbriche con le mitragliatrici [8] e i fascisti si presentano armati fino ai denti negli stabilimenti in sciopero per spaventare i lavoratori.
Il 15 marzo 1943 viene varato un Regio Decreto che stabilisce
«la reclusione fino a 6 mesi [per] gli operai delle fabbriche statali che si assentavano senza motivo per un giorno» [9]
Ovviamente, non sempre i provvedimenti repressivi possono essere concretamente attuati perché oltre alla preservazione del regime c’è pur sempre la preservazione del profitto per il quale i lavoratori sono ovviamente indispensabili. Del resto la “forza-lavoro” è una merce molto particolare che non può essere usata senza provocare nel suo proprietario – il lavoratore – una certa naturale resistenza al suo massimo sfruttamento, ma i fascisti capiscono che quello dei lavoratori non è solo uno sfogo effimero bensì l’esplosione di una rabbia che cova da tempo.
L’insoddisfazione dei lavoratori riesce manifestarsi nelle forme più svariate
«Assenteismo, rallentamento della produzione, atti di indisciplina, proteste contro l’insufficienza delle protezioni antiaeree sono espressioni di malcontento che abbondano nelle fonti di polizia» [10]
Ma è proprio nel passaggio dalla resistenza individuale alla mobilitazione collettiva coordinata che si colloca l’influenza “esterna” (esterna, ovviamente, nel senso di “più generale” rispetto al singolo posto di lavoro, alla singola situazione lavorativa, alla singola specificità geografica…).
Note
[1] Cfr. CASTRONOVO [2019]. Ovviamente, anche gli affari legati al riarmo dei paesi non ancora belligeranti, come l’Italia stessa.
[2] GALLO [2015], pag. 107.
[3] Cfr. CASTRONOVO [2019].
[4] Per un’utile distinzione tra forza “strutturale” e forza “associativa” dei lavoratori cfr. WRIGHT [2000]: «In this article, our concern is mainly with what I will term working class “associational” power-the various forms of power that result from the formation of collective organizations of workers. […] Associational power is to be contrasted with what can be termed “structural power”-power that results simply from the location of workers within the economic system». (pag. 962)
[5] GALLO [2015], pag. 115.
[6] MAIDA [1991], pag. 418.
[7] GALLO [2015], pagg. 108 e seg.
[8] MASSOLA [1973], pag. 99.
[9] GALLO [2015], pag. 114.
[10] Bertolo et al., Operai e contadini, p. 66.