Guglielmo Carchedi | Politiche Keynesiane e crisi: le implicazioni sui lavoratori
Pubblicato su Proteo, n.1, 2002.
Questo contributo è diviso in due sezioni. La prima analizza le cause delle crisi e le sue conseguenze per il capitale. Si vedrà che le politiche Keynesiane sono incapaci di evitare le crisi economiche. Questa prima sezione è necessaria per la comprensione della seconda sezione, presentata nel prossimo numero di Proteo, che esamina i modi in cui le crisi si manifestano e più direttamente le loro ripercussioni sui lavoratori. L’accento sarà posto su due manifestazioni della crisi di particolare rilevanza oggigiorno, le crisi finanziarie nei paesi dipendenti e la guerra. Anche qui l’accento sarà sulle politiche Keynesiane, in particolare sul cosiddetto Keynesismo di guerra. L’articolo nel suo insieme, quindi, dà gli strumenti per la comprensione di fenomeni sia di grande importanza per i lavoratori che di grande attualità.
La prospettiva adottata è quella di Marx piuttosto che quella di Keynes, cioè l’assunto su cui si basa l’analisi che segue è che solo il lavoro può essere la sostanza del valore e che in un sistema capitalista il valore deve manifestarsi come denaro [1].
1. Crisi di produzione e politiche keynesiane
Incominciamo con un breve, ma necessario, accenno alla teoria delle crisi. La tesi fondamentale è che la causa ultima delle crisi risiede nella concorrenza tecnologica nell’ambito delle relazioni di produzione capitalistiche. In breve, il modo principale attraverso cui i capitalisti competono all’interno di un dato settore è attraverso l’introduzione di tecniche nuove e più efficienti. Queste innovazioni aumentano la produttività, definita come unità di prodotto per unità di capitale investito. Con la stessa unità di capitale investito, l’innovatore produce più prodotti dei suoi concorrenti. Allo stesso tempo, questa maggiore quantità di prodotti viene realizzata rimpiazzando agenti di produzione con macchine, cioè con più mezzi di produzione e meno uomini e donne. Quindi, da una parte, una maggior quantità di merci è prodotta ma, dall’altra, meno uomini e donne sono occupati. In breve, le innovazioni tecnologiche in genere implicano una riduzione della forza lavoro ma realizzano un maggior output. Siccome meno lavoro è stato impiegato, quella maggiore quantità di merci incorpora meno valore e plusvalore [2].
L’azienda innovatrice ha prodotto da una parte meno valore ma dall’altra più prodotti per unità di capitale. Tuttavia, a causa della sua maggiore produttività e data la tendenziale perequazione del prezzo di tutti i prodotti dello stesso tipo, vende più prodotti dei suoi concorrenti allo stesso prezzo dei suoi concorrenti. L’innovatore tecnologico quindi realizza un maggiore tasso di profitto perché si appropria di una fetta dei profitti (cioè di una parte del plus valore prodotto dai lavoratori) dei suoi concorrenti [3]. Inoltre, siccome i capitali migrano da un settore all’altro in cerca di maggiori profitti, vi è anche una tendenziale perequazione dei tassi di profitto tra i diversi settori, cioè la formazione di un tasso medio di profitto. Tale tasso quindi cade (a causa dell’innovazione tecnologica) ma tale caduta cela da una parte un aumento del tasso di profitto per l’innovatore (un aumento che deriva dalla appropriazione, piuttosto che dalla produzione, di plusvalore) e dall’altra una maggior caduta per i capitalisti tecnologicamente arretrati (da cui tale plusvalore è appropriato). Se, di fronte ad una caduta del loro tasso di profitto, anche questi ultimi introducono la stessa (la nuova) tecnica di produzione, incrementando così anche la loro produttività e riducendo ulteriormente l’occupazione, il tasso medio di profitto cade ancora di più mentre l’output totale cresce. L’occupazione, i salari totali e il potere d’acquisto cadono, in tal modo aggravando le difficoltà di coloro che possono a mala pena sopravvivere in questa spirale discendente.
Se tale processo continua, alcuni produttori, tra coloro che sono tecnologicamente meno avanzati, incominciano a fallire. Per di più, le vendite cadono non solo a causa della disoccupazione ma anche perché coloro che hanno un lavoro, invece di spendere, aumentano i loro risparmi. Inoltre, i capitali di coloro che sono falliti, o di coloro che non sono falliti ma che non riescono ad individuare canali di investimenti profittevoli, giacciono inusati. Tutto ciò provoca un’ulteriore caduta della domanda e altri fallimenti. La crisi è incominciata [4]. Da un lato, si distrugge capitale come relazioni sociali: la relazione tra capitalisti e lavoratori è stata interrotta. Dall’altro, il capitale nella sua forma monetaria giace inutilizzato. A questo capitale monetario corrispondono merci non vendute. Si è creato quindi capitale eccedente, che ha preso la forma sia di denaro che di merci. La crisi genera sia capitale eccedente (come denaro e merci) che mancanza di capitale (come relazioni sociali) [5].
Come si esce dalla crisi? Se una quantità sufficiente di capitale è stata distrutta (cioè se una quantità sufficiente di aziende sono fallite), le nicchie nel mercato che non sono più colmate da coloro che hanno cessato la loro attività possono essere riempite da coloro che sono sopravvissuti alla crisi. La possibilità di espandere il loro mercato stimola gli investimenti e l’occupazione. Inizialmente, il maggior prodotto può essere venduto contro il capitale monetario eccedente. Poi, a causa dell’aumentata occupazione, al maggior prodotto corrisponde il maggior potere d’acquisto necessario per poterlo comprare. Il problema della realizzazione diminuisce. Allo stesso tempo, gli innovatori traggono vantaggio dai maggiori livelli di produttività e dai minori livelli dei salari reali che sono una conseguenza della depressione e della crisi. I loro tassi di profitto aumentano e con essi il tasso medio di profitto. Le condizioni per uscire dalla crisi sono state poste: prima, il capitale monetario eccedente viene utilizzato per comprare mezzi di produzione e forza lavoro; poi, il maggior prodotto (valore) viene assorbito dal maggior potere d’acquisto derivante dalla maggiore occupazione. Allo stesso tempo la profittabilità aumenta. Maciò è reso possibile dalla previa distruzionedi una quantità sufficiente di capitale come relazioni sociali. In ultima istanza, è il movimento contraddittorio della profittabilità dei vari capitali, riassunta nel tasso medio di profitto, che determina sia le crisi che la ripresa economica. Una caduta del tasso medio di profitto implica difficoltà economiche e infine fallimenti per i capitalisti meno competitivi. Un aumento implica il contrario [6].
Trovandosi a fronteggiare del capitale monetario eccedente, lo Stato potrebbe appropriarsene (o farselo imprestare) e investirlo nei settori che producono mezzi di produzione e di consumo. Vi sono tre alternative. Lo Stato potrebbe produrre esso stesso quelle merci, attraverso imprese statali, ma in questo caso diventerebbe un competitore del capitale privato così peggiorando le difficoltà di quest’ultimo. Oppure lo Stato potrebbe commissionare mezzi di produzione e di consumo al capitale privato. Ma anche in questo caso queste merci dovrebbero essere vendute e ciò peggiorerebbe il problema della loro realizzazione o vendibilità. Oppure, lo Stato potrebbe consumare le merci che ha ordinato. Ma, oltre ad una certa misura ciò creerebbe una larga burocrazia di Stato di natura parassitaria in competizione con la burocrazia privata per l’appropriazione di quelle merci. Ma la difficoltà di gran lunga più importante è che per ciascuno di questi tre casi ogni appropriazione da parte dello stato del capitale monetario necessario per quelle commesse è una diminuzione dei profitti del settore privato. Questo aumenta la crisi di profittabilità.
2. Il ruolo dello Stato
Lo Stato, quindi, ricorre alle politiche keynesiane. In quest’articolo esse si riferiscono alla appropriazione da parte dello Stato di capitale monetario eccedente e/o dei risparmi dei lavoratori, attraverso la tassazione o il prestito, al fine di commissionare infrastrutture al settore privato [7]. In tal caso, la borghesia di Stato diventa la proprietaria delle infrastrutture. Questo è uno svantaggio per il capitale privato (al quale però esso può ovviare attraverso la privatizzazione di quelle infrastrutture se le condizioni politiche e ideologiche sono propizie). Ma vi sono anche molti vantaggi. Per esempio, la borghesia di Stato non solo non compete con il capitale privato, non solo alleggerisce le difficoltà di realizzazione di quest’ultimo, ma in effetti, procurando le infrastrutture a quest’ultimo, diventa una condizione della sua riproduzione allargata. La domanda che si pone ora è: come si deve valutare l’effetto economico delle politiche keynesiane? Esse hanno un effetto anti-congiunturale? E se lo hanno, come lo si può spiegare dal punto di vista della teoria delle crisi tracciata sommariamente più sopra?
Supponiamo, per incominciare, che gli investimenti cadano di una certa percentuale. Se questo capitale non è investito, mezzi di produzione e forza lavoro rimangono invenduti. Questo è capitale-merce eccedente come merci nelle mani di capitalisti e lavoratori le cui merci (compresa la forza lavoro dei lavoratori) non vengono comprate. Questo capitale-merce incontra difficoltà di realizzazione. Dato che il tasso di profitto è calcolato su tutto il prodotto, che esso sia venduto o no, per i capitalisti le cui merci rimangono invendute vi è una riduzione dei profitti realizzati. Allo stesso tempo, il capitale monetario nelle mani dei capitalisti che non investono, ad esempio che non comprano quelle merci, è capitale monetario eccedente corrispondente al capitale-merce eccedente degli altri capitalisti. I tassi di profitto dei capitalisti che detengono capitale-merce eccedente cadono, cioè questo capitale ha difficoltà di profittabilità. Conseguentemente, anche il tasso medio di profitto cade.
Al fine di contrastare la crisi di profittabilità, lo Stato tassa il capitale monetario eccedente e lo usa per commissionare infrastrutture presso capitalisti privati. Così facendo, esso trasforma profitti non realizzati in capitale, cioè li capitalizza. Con questo capitale, i produttori di infrastrutture comprano mezzi di produzione e forza lavoro. Si può dimostrare che il tasso medio di profitto può essere riportato al livello di prima della la caduta degli investimenti solo se la relazione tra capitale costante e capitale variabile nel settore delle infrastrutture è sufficientemente al di sotto della media e se il tasso di plusvalore medio è sufficientemente alto.
L’argomento è il seguente. Prima di tutto, data la mobilità del lavoro e l’azione dei sindacati, dobbiamo assumere che in genere il tasso di plusvalore sia più o meno lo stesso sia nel settore delle infrastrutture che nel resto dell’economia [8]. Consideriamo ora il capitale monetario eccedente. Esso, se è appropriato dallo Stato, diventa una perdita per i capitalisti. Il tasso medio di profitto cade. Per riportare tale tasso al livello precedente, deve essere prodotto un profitto uguale a quella perdita. Siccome il capitale eccedente (corrispondente alla perdita) è investito nella produzione di infrastrutture, questo profitto deve venire da tale settore. Una parte di tale capitale è investito in capitale costante e un’altra in capitale variabile. Ma il capitale costante non produce plusvalore, solo il capitale variabile (con cui si compra forza lavoro) può produrlo. Dato che il tasso di plusvalore è lo stesso per tutti i settori, se la relazione tra capitale costante e capitale variabile è la stessa sia nel campo delle infrastrutture che nel resto dell’economia, il profitto derivante dagli investimenti nelle infrastrutture deve essere inferiore alla perdita iniziale. Questa differenza può essere compensata solo se una maggiore quantità di plusvalore è prodotta nelle settore delle infrastrutture, cioè se in tale settore più capitale è investito come capitale variabile (che produce plusvalore) che nel resto dell’economia. Ciò vuol dire che in tale settore la relazione tra capitale costante e capitale variabile deve essere minore della media. Esemplifichiamo [9]. Chiamiamo il capitale costante c, il capitale variabile v e il plusvalore s. Supponiamo che inizialmente si investano in un certo paese 80c+20v. A un tasso di plusvalore del 100%, s=20 e il valore totale del prodotto è 120. Supponiamo che gli investimenti cadano di 10, cioè che un output per un valore di 10 non sia venduto. Questa è una perdita di 10 per i produttori di quei mezzi di consumo e di investimento e un capitale eccedente nella mani dei mancati compratori di quelle merci. Ora lo Stato si appropria di quel valore di 10 (come moneta), per esempio tassa i mancati compratori di quei beni, e commissiona infrastrutture per un valore di 10. I produttori di infrastrutture investono 8c+2v (la stessa relazione tra capitale costante e capitale variabile di quella iniziale) e fanno produrre dai propri lavoratori un plusvalore di 2s (dato che il tasso di plusvalore medio è 100%). In totale sono stati investiti (80+8=) 88c + (20+2=) 22v=110 ed è stato prodotto un plusvalore di 20+2=22 meno 10 di perdita. Il profitto realizzato è quindi 12 e il tasso di profitto è 12/110=10.9% che è minore del tasso iniziale, 20%.
Se la relazione tra capitale costante e capitale variabile nel settore delle infrastrutture è maggiore della media iniziale, il tasso medio di profitto cade di più. Supponiamo che il valore di 10 prelevato dallo Stato venga investito nelle infrastrutture nella proporzione di 9c+1v; 1v genera 1s e il profitto realizzato è di 20-10+1=11. Il TMP (tasso medio di profitto) è 11/110 = 10%<10.9%.
Se la relazione tra capitale costante e capitale variabile nel settore delle infrastrutture è minore della media iniziale, il tasso medio di profitto cade di meno. Supponiamo che il valore di 10 prelevato dallo Stato venga investito nelle infrastrutture nella proporzione di 6c/4v = 1.5 < 80c/20v = 4; 4v genera 4s, il profitto totale è di 20-10+4 = 14 e il tasso medio di profitto è di 14/110 = 12.7% > 10.9.
Questi risultati valgono qualsiasi sia il tasso di plusvalore medio. Nell’esempio iniziale supponiamo un tasso di plusvalore non del 20% ma del 1500%, cioè 20v produce 300s. In questo caso, avremo 80c+20v+300s=400. Il tasso medio di profitto è di 300/100=300%. Di nuovo, supponiamo che gli investimenti cadano di 10. Lo Stato si appropria di questo valore e commissiona infrastrutture che richiedono un proporzione tra capitale costante e capitale variabile uguale alla media, cioè 8c+2v. Al tasso di plusvalore di 1500%, 2v producono un plusvalore di 30. Gli investimenti totali sono, come sopra, 88c+22v=110. I profitti meno perdite sono di 300s-10s+30=320s. Il tasso medio di profitto è 320/110=290% < 300%.
Tuttavia, dato un certo tasso di plusvalore, è possibile che il maggior profitto prodotto nel settore delle infrastrutture non sia sufficiente a compensare la perdita iniziale. Dato che l’unica altra alternativa, quella di un tasso di plusvalore più alto nel campo delle infrastrutture, è ammessa solo come eccezione, il tasso medio di profitto deve essere inferiore al suo livello precedente. L’unica possibilità di riportare il tasso medio di profitto al suo livello iniziale è che la relazione tra capitale costante e capitale variabile nelle infrastrutture sia sufficientemente più bassa della media e che il tasso medio di plusvalore sia sufficientemente alto affinché il plusvalore prodotto nella costruzione delle infrastrutture sia sufficiente a compensare la perdita iniziale [10].
Note
[1] Questo è l’assunto basilare dell’economia marxista. Come in tutte le teorie, l’assunto iniziale non deve essere necessariamente dimostrato. Tuttavia, in questo caso, tale assunto può essere dimostrato indirettamente, per esclusione, cioè dimostrando che tutti gli altri assunti conducono, a differenza di questo, a teorie del valore internamente incoerenti.
[2] Il plusvalore è il valore prodotto dai lavoratori eccedente il valore della propria forza lavoro. È appropriato dai capitalisti.
[3] Il tasso di profitto è il plusvalore diviso per il capitale investito.
[4] Altri approcci sostengono che, dato che l’innovatore tecnologico realizza un più alto tasso di profitto, tanto più sono gli innovatori, tanto più alto è il tasso medio di profitto. La teoria del valore lavoro giunge ad una conclusione esattamente opposta, supportata dall’osservazione empirica.
[5] Questa è la tendenza. Vi sono molte contro-tendenze che però non possono essere analizzate in questa sede.
[6] Per un trattamento più dettagliato di questi temi, il lettore può consultare Carchedi, 1991, 1999, 2001.
[7] Le politiche keynesiane sono solo una delle tante politiche economiche anti-congiunturali alle quali i governi ricorrono. Le altre due più importanti sono le politiche monetarie e quelle fiscali.
[8] Il tasso di plusvalore è il plusvalore diviso per il valore della forza lavoro.
[9] Il lettore non interessato all’esempio numerico può saltare le righe seguenti
[10] Torniamo all’esempio numerico iniziale. Supponiamo che il capitale eccedente in mano ai mancati compratori (che corrisponde alla perdita dei venditori) sia appropriato dallo stato il quale commissiona infrastrutture per quel valore, 10.
I produttori di infrastrutture investono solo in mano d’opera. Cioè non si compra capitale costante, solo capitale variabile e quindi vi è la massima produzione di plusvalore. Con un tasso di plusvalore di 100%, 10v producono 10s. In totale, si investe 80c+(20v+10v=)30v=110. Il plusvalore prodotto e realizzato è di 20-10+10=20. Il tasso medio di profitto è 20/110=18% che è maggiore del tasso medio di profitto in caso di investimenti nelle infrastrutture con una relazione tra capitale costante e capitale variabile uguale a quella media iniziale (10.9%) ma pur sempre inferiore al tasso medio di profitto prima della caduta degli investimenti (20%). Con questo tasso di plusvalore medio, il tasso medio di profitto non può risalire al livello di prima della caduta degli investimenti anche se tutto il capitale eccedente è investito in forza lavoro. La profittabilità può essere ristabilita solo se il tasso di plusvalore medio è maggiore del 100%. Per esempio, con un tasso di plusvalore del 200%. In questo caso, 80c+20v danno un plusvalore di 40s. Se gli investimenti nelle infrastrutture sono 3c e 7v (cioè la relazione tra capitale costante e capitale variabile è minore della media), il plusvalore prodotto nelle infrastrutture è di 14s. In totale, si sono investiti (80+3)c e (20+7)v, cioè 110. Il profitto realizzato è 40-10+14 = 44 cosicché il tasso medio di profitto è 44/110= 40%, il livello di prima della crisi.