La contraddizione | NEuro-fobia
Origini della questione
Introduzione al 1° gennaio 2002 della moneta unica coincide con una evidente impennata dei prezzi (“1000 lire sono come 1 €”). Il ministro dell’economia Tremonti (governo Berlusconi 2) attribuisce l’aumento dei prezzi alla mutata attitudine psicologica dei consumatori; secondo il ministro Trecarte, il problema consisteva nel fatto che i “cònzumatori” italiani non avendo adeguata confidenza con monete dotate di un valore così alto (1 € e 2 €), le sperperavano impoverendosi “a loro insaputa”. Per ovviare a ciò, propone l’introduzione dell’euro di carta (la proposta resta inevasa anche a livello europeo).
Euro-fobia moderna
Bibliografia: “Il tramonto dell’Euro” (A.Bagnai, 2012), criticato da alcuni per cui la sua prospettiva culturale sarebbe “populista, nazionalista, socialista” ma divenuto punto di riferimento imprescindibile per parte della sinistra sedicente antagonista.
Tesi principale: il problema dell’euro è che l’adozione di una valuta unica a livello europeo permette un trasferimento di risorse dai paesi del sud Europa alla Germania. L’adozione dell’euro ha privato lo stato italiano di uno strumento, a suo dire, fondamentale, ossia quello della cosiddetta svalutazione competitiva che molti anni ha permesso di deprezzare la lira; quindi l’Italia non può adottare una manovra sul tasso di cambio per stimolare la vendita delle merci locali all’estero, migliorando così il saldo della bilancia commerciale.
Svalutazione competitiva e debito
Recuperando la sovranità monetaria sarebbe possibile svalutare la moneta locale (neolira) nei confronti delle altre valute (vedi anni ottanta e novanta) cosicché le merci prodotte dal capitale italiano divengano più economiche all’estero; parallelamente però le merci importate divengono più care. La tesi degli euroscettici consiste nel fatto che “è colpa dell’euro” se la bilancia commerciale (esportazioni – importazioni) è in passivo e questo saldo genera automaticamente un ulteriore indebitamento. Ciò impedisce all’Italia (come alla Spagna, Grecia e Portogallo) di uscire dalla crisi che è generata, secondo l’autore quasi esclusivamente dal livello di indebitamento (in Italia ha ormai superato i 2.100 mrd € pari a più del 130% fin relazione al Pil)
Andamento della bilancia commerciale
Se è vero che dall’introduzione dell’euro la bilancia commerciale italiana è andata in deficit dall’introduzione della valuta unica (importazioni superiori alle esportazioni), nel 2012 e nel 2013 c’è stata un’inversione di tendenza.
Critiche allo strumento della svalutazione competitiva
Molti osservano che, ammesso e non concesso, che il saldo positivo della bilancia commerciale possa essere la risoluzione definitiva della crisi, le svalutazioni competitive:
– Non hanno generato nei decenni precedenti dei ritmi di accumulazione straordinari;
– Nel 2012 e 2013 il saldo della bilancia commerciale è stato positivo ma nel primo trimestre del 2014 il Pil ha assunto valori negativi (recessione non ovviata da un saldo positivo della bilancia commerciale);
– Poiché l’Italia è un grande importatore di materie prime ed esportatore di manufatti (e servizi) – economia di trasformazione – l’aumento dei prezzi delle merci importate potrebbe neutralizzare i benefici dell’incremento delle esportazioni [l’Italia è un paese che tende ad esportare principalmente manufatti (quasi il 60% delle esportazioni è composto da macchinari o beni di consumo finale), mentre importiamo (20% del totale) materie prime, quasi completamente da stati esterni all’Europa a 27]
– E’ molto difficile calcolare le elasticità della domanda al variare del prezzo delle importazioni (utilizziamo moltissime valute nel commercio con l’estero);
– Ammesso che ciò sia possibile, molti studi dimostrano che il rispetto della condizione marshall-lerner non è sufficiente a garantire miglioramento del saldo della bilancia commerciale.
Perché il problema è impostato male: lo spettro del nazionalismo
Come si può desumere dal precedente grafico, dire che “l’Italia” come un unicum ci ha guadagnato o perso da una situazione del genere è del tutto errato e fuorviante (in verde c’è la curva degli autonomi, che ben lungi da individuare una collocazione politica, traccia l’andamento del reddito dei grandi e piccoli proprietari del capitale, insieme alle partite Iva e, più in generale, a coloro che non sono ascrivibili alle altre categorie). Ci sono state perdite e guadagni a secondo della fonte del proprio reddito (profitti o salari).
Proprio a partire dal 2002, la generalità della classe subalterna ha subìto un pesante impoverimento, aggravatosi poi con l’emersione della crisi quarantennale alla fine del 2008. Non è un caso, infatti, che dall’introduzione dell’euro in poi, si sia rafforzata significativamente la tendenza, già individuabile almeno dagli anni ottanta, ad una polarizzazione dei redditi (su base funzionale, aggiungiamo noi) e ad un aumento della disuguaglianza più in generale [vedi anche Massari-Zelli-Pittau (JoEI, 2012)]
Pertanto, per quanto, a prima vista, possa sembrare un dettaglio di scarsa considerazione, c’è da notare come l’adozione di un’ottica ampia (attraverso il “noi” o il “ci” a cui si contrappone il “loro”) individui non la classe subalterna – ossia l’insieme dei percettori di salario (diretto, indiretto o differito) – bensì lo stato italiano come se fosse un unico corpus (frutto di un’ottica neocorporativa che è chiaramente penetrata in maniera pervasiva ad ogni livello) privo di una articolazione funzionale (proprietari delle condizioni di produzione e lavoratori salariati), cosa ribadita in maniera speculare per quel che concerne lo stato tedesco (per esempio niente viene detto sulla classe subordinata locale ed i minijobs che hanno enormemente penalizzato le condizioni dei lavoratori in Germania).
Proponendo un’analisi di contrapposizione Italia-Germania si rischia di scivolare sul terreno del nazionalismo che, come è ovvio, è agli antipodi dell’analisi di classe: e questo non va mai dimenticato.
Probabili costi e presumibili conseguenze
Ammesso che l’Italia tornasse ad una sorta di neolira, è prevedibile che la nuova valuta subirebbe una svalutazione di circa il 20-30%. Ciò comporterebbe di certo:
– Un innalzamento dei dazi doganali da parte dei nostri principali partners stranieri (che di certo non rimarrebbero con le mani in mano ad ammirare il genio italico);
– Una ridefinizione dell’importo del debito in mano a detentori esteri (circa 30%, ossia 700 mrd €) che difficilmente accetterebbero una svalutazione dei propri crediti;
– Costi tecnici connessi al passaggio alla nuova valuta;
– Fuga di capitali e rischio speculazioni (la pletora di capitale monetario è una realtà significativa, specie dopo le iniezioni di liquidità della fed attraverso i diversi quantiative easing).
– Rischio di stallo produzione per difficoltà di acquistare materie prime (diverse fasi circolazione e produzione).
Il centro studi di Confindustria, come riportato anche dal sole24ore, ha senza mezzi termini sentenziato che sarebbe un “disastro uscire dall’euro”, stimando che i danni all’economia italiana potrebbero raggiungere persino i 1000 mrd € in poco tempo (rischiando così di frantumare più del 50% dell’attuale produzione lorda). Questo poiché “ora si produce importando anche i semi-lavorati che servono a produrre i beni finali da esportare. In questo nuovo contesto di “supply-chain globale” {catena del valore globale, ndr} la svalutazione del cambio renderebbe queste importazioni assai più costose annullando l’eventuale guadagno di competitività”.
Uno studio di Ubs (unione delle banche svizzere) sostiene che il costo annuale pro-capite sostenuto da un residente in un paese debole che esce dall’euro si aggira intorno ai 10.000 €. Cifra che poi va riducendosi negli anni.
Considerazioni finali
– la crisi è necessaria ed immanente al modo di produzione capitalistico: l’euro è solo l’ultimo di una lunga serie di capri espiatori (agenzie di rating, speculatori senza scrupoli, comportamento delle banche, psicologia dei consumatori ecc.) utile a nascondere la natura della crisi.
– ciò ha l’obiettivo di negare che la crisi post-2008 è sistemica : è una crisi di accumulazione di capitale, dovuta alla sovraproduzione di merci e di capitale, originatasi almeno con la fine degli accordi di Bretton Woods (primi anni settanta) e che, nel 2008, ha individuato un momento di necessaria pesante emersione
– è innegabile che, come del resto hanno recentemente dichiarato molti tra coloro che parteciparono alla nascita dell’euro dal punto di vista istituzionale, ci furono palesi e reiterate pressioni tedesche nel concludere un’unione monetaria europea, che includesse l’Italia, per far sì che le merci prodotte da capitali italiani perdessero la loro consueta competitività, promettendo in cambio una gestione benefica di tutta l’area cosa che, invece, è stata del tutto disattesa (“Alla Germania servivamo proprio perché deboli”, intervista a Visco, 13/05/2012, ilfattoquotidiano)
– se non può esser messo in discussione il fatto che l’adozione dell’euro abbia favorito il capitale tedesco (ma, si badi bene, non la Germania), ridimensionando le prospettive soprattutto dei piccoli e medi capitali dell’Europa (e quindi non l’Italia), d’altra parte appare abbastanza avventuroso sostenere tout court che la soluzione salvifica (per chi?) potrebbe essere quella della fuoriuscita dall’euro ed il ritorno ad una teoricaneolira.
– il problema va inserito più propriamente in un’ottica di conflittualità del capitale europeo con quello legato al dollaro, di cui la speculazione al ribasso sulla Grecia è stata solamente una delle puntate più sanguinose.
– L’esistenza dell’euro ha, di fatto, dato forma diversa al conflitto – entrato ora in una delle fasi più acute – tra il capitale legato al dollaro e quello una volta legato al marco tedesco ed ora all’euro. Le specificità sono chiaramente diverse poiché connaturate ad una fase distinta ma la sostanza resta la contrapposizione tra fratelli nemici legati a valute antagoniste.
– La disputa tra euro-fobici e sostenitori della moneta unica europea assume sempre di più la forma di underby calcistico in cui è necessario sventolare la bandiera dell’una o dell’altra compagine. Lo sfruttamentodella classe dominante su quella lavoratrice è di certo mediato dal denaro; ma esso è ciò che sostanzia il modo di produzione capitalistico, indipendentemente dalla valuta adottata. Dunque, se non è di certo la sua forma (euro, lira, peso ecc.) a dettare il rapporto di subordinazione e dipendenza – che invece, come vedremo in seguito, è utile a regolare i rapporti di forza tra i diversi capitali, fratelli aspramente nemici, in una fase di crisi prolungata come quella attuale –, il dibattito che ne è scaturito può giustamente coinvolgere soggetti politici che adottano altri paradigmi scientifici che nulla hanno a che fare con Marx. Pertanto, non è chiaro a quale titolo e con quale scopo dovrebbero essere interessati coloro che vedono nell’analisi dei rapporti di proprietà la chiave di lettura dell’economia politica.
(estratto di un articolo in uscita sul no.147 della Contraddizione)