Antiper | Alain Badiou e la rivoluzione
Questo intervento è una lettura di un testo di Alain Badiou sulla rivoluzione russa dell’ottobre 1917, tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesis, 2023.
Di recente è uscita [1] una piccola raccolta di interventi del filosofo francese Alain Badiou dedicati alle due principali rivoluzioni del ‘900: la rivoluzione russa (d’ottobre) e la rivoluzione cinese.
In questi interventi Badiou rivendica integralmente il carattere progressivo per l’umanità di questi “eventi” (per usare un termine del suo arsenale teorico) e anche solo il fatto che un importante filosofo prenda posizione in modo così netto a favore delle rivoluzioni comuniste è una cosa che, di per sé stessa, riveste una grande importanza, in questi tempi di pensiero debole, anzi insulso. In questo intervento vogliamo entrare in dialettica con il breve saggio sulla Rivoluzione d’Ottobre analizzando alcuni passaggi che ci sono sembrati meritevoli di approfondimento.
L’esordio di Badiou è suggestivo e istituisce una linea di continuità rivoluzionaria tra la rivolta degli schiavi guidati da Spartaco e le rivoluzioni del ‘900
“Spartaco, Thomas Müntzer, Robespierre, Saint-Just, Toussaint Louverture, Varlin Lissagaray e gli operai in armi della Comune: tanti “dittatori” calunniati e dimenticati, che Lenin, Trockij o Mao Zedong hanno trasformato in quello che sono stati: eroi dell’emancipazione popolare, punti fermi dell’immensa storia che orienta l’umanità verso il governo collettivo di se stessa.”
Colpisce l’affiancamento di Trockij a Lenin (neppure Trockij, a cui certo non mancava l’autostima, avrebbe osato tanto dopo il 1917); i ruoli di Lenin e di Trockij, infatti, stanno su piani davvero molto diversi. Per intendersi (e sicuramente schematizzando), senza Lenin non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione d’Ottobre e se fosse stato per Trockij non ci sarebbe stato neppure alcun partito bolscevico. Encomiabile, certo, che dopo 15 anni di lotta senza quartiere Trockij, a 1917 inoltrato, si sia avvicinato ai bolscevichi e si sia allontanato dai classici alleati menscevichi, ma da qui ad accoppiare Lenin e Trockij ce ne passa.
E ancora di più colpisce l’affiancamento di Trockij a Mao, considerato ciò che Mao pensava delle idee di Trockij e della sua attività politica. Un’accoppiata piuttosto inusuale.
Probabilmente quello di Badiou è solo un posizionamento e precisamente un allineamento con il caro amico Slavoj Zizek, uno dei più famosi clown del circo filosofico pop contemporaneo.
Un’altra cosa che colpisce è il fatto che Badiou si riferisca alle “personalità”, ai “leader” e non, come avrebbe potuto e forse anche dovuto fare, alle classi sociali protagoniste delle rivolte, delle insurrezioni, delle rivoluzioni… Forse perché mettere assieme gli schiavi di Roma con i contadini tedeschi del 1500, la borghesia rivoluzionaria parigina con gli schiavi caraibici e questi con le masse popolari russe e cinesi… rischiava di assomigliare ad un’idea di processo storico un po’ troppo storicistica e teleologica: il lato “cattivo” della storia impegnato nel lungo processo di emancipazione e di conquista dell’autocoscienza (o dell’autogoverno, come dice il filosofo francese); una visione che, sia detto per inciso, sembra un po’ in contrasto con lo stesso approccio filosofico di Alain Badiou, incentrato sul tema dell’evento come elemento dirimente che spezza il corso storico e ne istituisce uno di tutt’altra natura.
C’è una seconda osservazione suggestiva che riguarda la critica del “discorso totalitario”; un discorso strutturato da Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo, ma in realtà anticipato dall’uso che del termine, di origine fascista, aveva fatto l’establishment americano [2] fin da prima della Seconda guerra mondiale
“Hanno inventato la parola “totalitario” per caratterizzare tutti i regimi politici guidati dall’idea di uguaglianza.”
Secondo Badiou, ciò che il nemico chiama “totalitario” sarebbe in realtà ciò che noi consideriamo “guidato dall’idea di uguaglianza”. Si tratta di un’affermazione problematica per almeno due ragioni: la prima ragione deriva dal fatto che il termine totalitario viene usato da Hannah Arendt (e da tutto il liberalismo novecentesco) nei confronti del comunismo sovietico “staliniano”, ma anche del nazismo. L’accostamento arendtiano di nazismo e comunismo è abbastanza precoce [3] in quanto collocato negli anni ‘50, molto vicino alla fine della Seconda guerra mondiale in cui la Germania nazista (con l’iniziale avallo dei regimi liberali francese e britannico) aveva appena provocato l’immane devastazione dell’Europa, mentre i sovietici avevano appena pagato con 25 milioni di morti la propria resistenza sotto la guida, volenti o nolenti, di Stalin. Ma Badiou accusa Stalin di essere l’affossatore dell’esperienza dei Soviet e, lascia intendere, un nemico dello spirito rivoluzionario del 1917.
Ora, ipotizzando che Badiou non intenda difendere il nazismo dall’accusa di totalitarismo e tanto meno dichiararlo “regime politico guidato dall’idea di uguaglianza” la situazione che si presenta è la seguente: i due principali sistemi politici accusati di totalitarismo – il regime nazionalsocialista tedesco e il socialismo sovietico “staliniano” – non vengono difesi da Badiou che dunque non si capisce chi intenda difendere da tale accusa. Di certo non Spartaco o Thomas Muntzer o gli insorti della Comune. Probabilmente il solo Robespierre che in effetti, però, viene quasi sempre associato a Stalin (il terrore giacobino e quello comunista o staliniano). Insomma davvero una gran confusione. La voglia di stupire il lettore a volte gioca brutti scherzi.
Badiou cerca poi di mostrare che i comunisti, tra il 1917 e il 1929 non sono stati per nulla totalitari, ma anzi dei simpatici confusionari
“ha riunito e unito persone estremamente diverse, grandi intellettuali, operai delle fabbriche, contadini dal profondo della tundra […] tra il 1917 e il 1929, ha attraversato spietate guerre civili e appassionate discussioni politiche. […] Fu l’esposizione, non di una Totalità totalitaria, ma di un disordine attivo straordinario”
Ma il “disordine” non era per nulla voluto e non era neppure una bella cosa, dato che finiva per influenzare la vita di milioni di persone; il disordine era il frutto di una situazione di grande debolezza inevitabile per un paese che era quasi in ginocchio dal punto di vista economico e militare. Lo slancio rivoluzionario aveva fatto molto, ma non poteva fare tutto e la domanda che dovremmo porci è se sarebbe bastato lo slancio, sia pure generoso, senza i progressi tecnici, agricoli, industriali del periodo “stalinista”, con tutte le sue ombre.
“La rivoluzione russa del 1917, sulla scia della Rivoluzione francese, voleva stabilire per sempre il regno egualitario della specie umana. Voleva lasciarsi alle spalle il neolitico.”
Qui, per “rivoluzione neolitica” si deve intendere non tanto il periodo storico in cui si affermano agricoltura e allevamento, in cui nascono le città e poi le civiltà… quanto piuttosto l’atto di nascita delle società classiste; secondo Badiou la rivoluzione borghese e quella proletaria starebbero una nella scia dell’altra. Ma la Rivoluzione Francese è la grande rivoluzione borghese che inaugura la forma più sviluppata di dominio di classe; anzi, la forma più sviluppata e più pericolosa, come Marx spiega magistralmente nell’ultimo paragrafo del primo capitolo del Libro I del Capitale, dove mostra come il “feticismo delle merci” nel modo di produzione capitalistico permetta al dominio sulle persone di camuffarsi dietro un semplice rapporto con le cose, rendendosi invisibile e quindi molto più difficile da identificare.
Il tentativo storicista di mettere l’Ottobre nella scia dell’Ottantanove e l’Ottantanove nella scia della guerra dei contadini potrebbe avere un senso dal punto di vista hegelo-retorico (siamo il percorso di emancipazione dell’umanità dagli stadi più arretrati a quelli più avanzati della sua coscienza); ma se proprio la dobbiamo buttare sull’hegeliano allora è più interessante vedere l’Ottobre come negazione dialettica dell’Ottantanove e questo, a sua volta, come negazione dialettica dell’ancient regime. Non, dunque, una rivoluzione che apre la strada e l’altra che ne segue la scia, ma una vera e propria negazione della negazione. Un aufhebung, diciamo.
“è certo che debba esserci, che sia necessaria, nei secoli in atto, o nei millenni in atto, e a un livello che non possiamo determinare, una seconda rivoluzione dopo quella neolitica. Una rivoluzione che sarebbe alla pari di quella neolitica per importanza, ma che, nell’ordine dell’organizzazione immanente della società, ripristinerebbe l’unità primordiale dell’umanità”
La rivoluzione post-neolitica è, per Badiou, la rivoluzione che pone fine alla “fase neolitica”, classista, della storia umana e apre la strada alla “fase post-neolitica”, la società senza classi.
“dalla Rivoluzione francese del 1792-1794 non sono mancati i tentativi di raggiungere una vera uguaglianza, sotto vari nomi: democrazia, socialismo, comunismo.”
Qui Badiou fa una puntualizzazione interessantissima, circoscrivendo la “rivoluzione francese” alla fase giacobina che in effetti rappresenta la fase in cui la borghesia parigina ha tentato con maggiore coerenza e determinazione di costruire forme politiche, istituzionali e culturali adeguate ai propri interessi.
Badiou vede la “seconda rivoluzione”, la rivoluzione post-neolitica, come inevitabile e
“la rivoluzione russa ha dimostrato, per la prima volta nella Storia, che era possibile avere successo […] ha incarnato, e deve incarnare nella nostra memoria, se non la vittoria, almeno la possibilità di vittoria […] la rivoluzione russa ha mostrato la possibilità di un’umanità riconciliata con se stessa”
Più volte Badiou sembra porre un problema di ordine morale alla base della sua certezza circa l’inevitabilità della vittoria rivoluzionaria
“poche centinaia di persone hanno una ricchezza pari a quella di altri tre miliardi. E più di due miliardi di persone non possiedono nulla […] un’oligarchia globale molto ristretta lascia oggi praticamente senza possibilità di semplice sopravvivenza miliardi di esseri umani, che vagano per il mondo alla ricerca di un posto dove lavorare, sfamare una famiglia, ecc.”
Ma senza l’“ottimismo della ragione” di Hegel – che però ci impone di considerare il reale come razionale (ad esempio il fatto che qualche decina di persone ha un patrimonio equivalente a quello di miliardi di persone) – forse sarebbe meglio adottare un approccio più prudente, magari come quello di Friedrich Engels quando parla di alternativa tra socialismo e barbarie. Pian piano, infatti, avanza anche un’ipotesi pessimistica sul futuro dell’umanità. Un’ipotesi di ritorno anti-dialettico all’unità originaria della preistoria umana. Invece dello sviluppo verso la società senza classi ovvero il comunismo del futuro, la distruzione della civiltà umana, il ritorno alle origini del comunismo primitivo.
C’è ancora una riflessione di Badiou che merita di essere analizzata e riguarda le condizioni storiche che hanno permesso alla rivoluzione d’Ottobre di vincere. Badiou parla della grande vivacità del dibattito politico in Russia e della combattività della nuova classe operaia, parla dell’importanza del partito bolscevico con la sua elaborazione politica variegata e la sua disciplina e organizzazione e parla delle organizzazioni della democrazia popolare, a cominciare dai Soviet.
“Ciò che è unico nella storia dell’umanità è la trasformazione di una rivoluzione che mira solo a cambiare il regime politico, a cambiare la forma dello Stato, in una rivoluzione completamente diversa, che mira a cambiare l’organizzazione della società nel suo complesso, rompendo l’oligarchia economica e affidando la produzione, sia industriale che agricola, non più alla proprietà privata di pochi, ma alla gestione decisa da tutti coloro che lavorano. Questo progetto, che si concretizzerà nella terribile tempesta della rivoluzione russa, nella presa del potere, nella guerra civile, nel blocco, nell’intervento straniero, va visto come voluto e organizzato.”
Prima venne il paziente Lenin
“Quanto allo stile politico, lontano dal “volontarismo” violento attribuito a Lenin, è fatto di pazienza, discussione e persuasione.”
Poi venne Stalin il Terribile
“dall’inizio degli anni Trenta, dal 1929 in poi, con il primo piano quinquennale, sotto l’implacabile guida di Stalin, si passò da “tutto il potere ai soviet” a “tutto il potere alla completa fusione del partito comunista e dello Stato”, e quindi alla scomparsa del potere dei soviet.”
Quello che Badiou mostra di non ricordare è che la persona che nell’aprile del 1917 aveva proposto di adottare la parola d’ordine “tutto il potere ai Soviet” era la stessa persona che qualche mese dopo, alla vigilia dell’insurrezione, aveva proposto di abbandonarla. E quella persona non era Stalin.
Quella persona aveva capito che in una fase rivoluzionaria dev’essere il partito rivoluzionario a guidare il processo storico verso la conquista e la conservazione del potere politico, se ne è capace. Il partito bolscevico fu capace di dirigere il processo rivoluzionario proprio perché seppe muoversi alla velocità degli eventi e non sulla base di equilibri formali che invecchiavano nel giro di poche settimane (come dimostra eloquentemente la questione dello scioglimento dell’Assemblea Costituente).
“Questa trasformazione della forma di potere prepara, in lontananza, ma prepara, un’industrializzazione di certo molto necessaria e molto rapida, ma che è in definitiva legata al lavoro forzato, alle deportazioni e al Terrore, che raggiungerà il suo apice nel 1937-1938.”
“Lavoro forzato”, “deportazioni”, “Terrore”… Qui è proprio la classe al potere nell’ultima fase neolitica a parlare, una classe che non può perdonare ai comunisti e proletari russi di non essere finiti come i generosi insorti della Comune francese, morti ammazzati e martiri.
A voler essere schematici si potrebbe anche dire così: è molto facile pontificare dagli scranni delle più alte istituzioni accademiche del grande capitale francese su una fase dolorosissima in cui molti hanno cercato, in cattiva ed anche in buona fede, di rovesciare il potere sovietico.
Poi, certo, la sconfitta della rivoluzione c’è stata. Il primo tentativo di transizione al socialismo non ha avuto successo proprio come non hanno avuto successo i primi tentativi della borghesia di affermare il suo potere e rovesciare stabilmente l’ancient regime: lo dimostrano proprio le altalenanti fasi del post-Ottantanove con Napoleone Bonaparte, la Restaurazione, l’Impero…
Queste erano alcune riflessioni che abbiamo ricavato dalla lettura del breve testo di Badiou di cui vogliamo riprendere una bella frase che sentiamo di condividere integralmente
“Il capitalismo è morte. La rivoluzione comunista dell’ottobre 1917 è, a livello del futuro dell’umanità, l’inizio della vita.”
La nascita del mondo nuovo verrà.
Lo sappiamo perché il travaglio è già iniziato.
Note
[1] Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesis, 2023, Titolo originale: Petrograd, Shanghai, La Fabrique Éditions, 2018. Traduzione italiana di Linda Valle
[2] Cfr. Arnaldo Testi, Il secolo degli Stati Uniti, il Mulino, 2014, p. 157.
[3] Ma, come detto, preceduto dall’uso che ne era stato fatto in precedenza e accantonato temporaneamente durante gli anni della guerra.