Giorgio Cesarale | Il Marx di David Harvey
Urbanesimo e capitalismo
Della ampia e stratificata opera di David Harvey, di questa singolare figura che si colloca a metà fra urbanistica e teoria sociale, si conosce ormai molto, vista la larga circolazione ottenuta da libri come La crisi della modernità, La guerra perpetua e Breve storia del neoliberismo. Meno conosciuta, tuttavia, è la sua attenta e proficua ricerca sul Capitale marxiano; ricerca che è, peraltro, alla base delle tesi sostenute nelle opere appena menzionate. Ciò che in prima battuta ci proponiamo in questo articolo è di esporre le linee fondamentali di questa ricerca, valutandone meriti e specificità. In conclusione, cercheremo di dire in quale direzione la rilettura del Capitale compiuta da Harvey ha influenzato il corso delle sue più recenti indagini teoriche.
Della ermeneutica marxiana di Harvey si può dire che è peculiare anzitutto l’ispirazione generale: nessun autore, fra coloro i quali hanno recentemente provato a riattivare il contenuto problematico della critica marxiana dell’economia politica, è stato più fermo di lui nel rivendicare l’esigenza che sia sul terreno della analisi della crisi e delle “contraddizioni” del capitalismo che debba essere verificata la validità teorica di tale critica. Si tratta di un approccio che, pur comportando una certa riduzione della molteplicità di temi e “aperture” problematiche che Marx è venuto promuovendo nella sua matura critica dell’economia politica, non determina una incongrua dogmatizzazione del dettato testuale marxiano: il Capitale è anzi considerato come una sorta di cantiere a cielo aperto, come un testo pieno di “empty boxes”, che occorre riempire di significati e contenuti.
Una operazione di questo tipo non è peraltro rara nell’ambito del pensiero marxista contemporaneo: anche il filosofo francese Jacques Bidet, per esempio in Explication et reconstruction du Capital (PUF, Paris 2007), muove dall’ obiettivo di ripensare il Capitale a muovere dai “vuoti” del Capitale stesso. Tuttavia, mentre Bidet prova a riformulare il passaggio dalla sfera della circolazione a quella della produzione, quindi opera quasi esclusivamente all’interno del I libro del Capitale, Harvey lavora soprattutto sul raccordo fra I, II e III libro della stessa opera. La questione centrale è cioè quella della ricostruzione del nesso fra l’analisi del processo di produzione, contenuta nel I libro, e quelle del processo di circolazione (II libro) e di distribuzione del plusvalore fra le diverse classi sociali (III libro). Se si vuole ricollegare Marx con il paesaggio sociale e politico novecentesco e post-novecentesco – questo il proposito di Harvey – il contenuto del I libro non è sufficiente, ed ha anzi esiti fuorvianti.
Non è, in linea generale, una posizione di poco conto all’interno della storia del pensiero marxista. Già Rosa Luxemburg si era levata contro la tendenza di larga parte del pensiero marxista, alimentata da ragioni “politiche”, a concentrarsi sui contenuti del I libro del Capitale – che sembrava contenere tutto quanto fosse necessario a fondare l’azione delle organizzazioni del movimento operaio – trascurando il resto dell’opera. Per Luxemburg questa rimozione, soprattutto del II libro, aveva recato notevole nocumento al marxismo: il fenomeno del colonialismo, e cioè la ricerca di una domanda estera supplementare, era comprensibile solo alla luce del venir meno di una clausola restrittiva assunta da Marx nel I libro, e cioè la perfetta trasformazione, all’interno del ciclo di capitale, del valore della merce in capitale-denaro. Poiché nel capitalismo “reale”, non in quello ritratto nel I libro, la trasformazione del valore delle merci in denaro non è, per varie ragioni, affatto assicurata, continuare a lavorare con l’impianto analitico del I libro avrebbe significato condannarsi all’impotenza.
Sebbene di taglio più “accademico”, la critica – inaugurata dal padre degli economisti “austriaci”, Eugen Böhm Bawerk, e poi lungamente dibattuta in tutto il corso del Novecento – alla cosiddetta trasformazione marxiana dei “valori” del I libro nei “prezzi” del III libro, ha focalizzato al fondo il medesimo problema, l’impossibilità di superare le tensioni teoriche esistenti fra i diversi libri delCapitale. Sono tensioni, come appare sempre più in virtù della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx, la MEGA2, ineliminabili, anche perché legate all’incompiutezza del Capitale, a quella circostanza per cui la maggior parte dei manoscritti rifluiti nel II e nel III libro sono stati redatti prima ancora che Marx pubblicasse nel 1867 la prima edizione del I libro.
Ma come è arrivato Harvey alla comprensione della centralità del II e del III libro del Capitale per la più piena valorizzazione della critica marxiana della economia politica? Harvey, intanto, si avvicina al Capitale, e più in generale al marxismo sul finire degli anni ’60, grazie a una esperienza tipica del mondo anglo-americano, quella dei Capital Reading Group. La lettura del Capitale e le lezioni universitarie che su di esso Harvey inizia a tenere con regolarità lo inducono a riconsiderare la sua originaria impostazione teorica, che era piuttosto segnata dall’epistemologia popperiana: il frutto di questo cambiamento di rotta è Social Justice and City (Johns Hopkins University Press, Baltimore 1973), intelligente confronto fra il paradigma liberale e quello socialista rispetto alla natura dei problemi urbanistici, che si conclude con un tentativo di operare una sintesi dell’uno e dell’altro. Ma Social Justice and City appare quasi subito ad Harvey non pienamente soddisfacente: le urban issues affrontate nel libro sono trattate senza aver previamente studiato a un più alto grado di generalità teorica le categorie di “capitale fisso”, “capitale finanziario” (fondamentale per comprendere il mercato immobiliare) e “rendita fondiaria”; categorie che in Marx sono collocate nel II e nel III libro del Capitale.
Dunque è per comprendere i problemi dell’urbanizzazione, uno dei fenomeni più decisivi della vita moderna, che Harvey si trova costretto ad affrontare direttamente i libri del Capitale meno frequentati nella storia del marxismo. La scelta è teoricamente onerosa e ha, in qualche modo, implicato una profonda ritessitura della trama concettuale del Capitale, i cui risultati vedranno la luce molti anni più tardi, nel 1982, con la pubblicazione dell’imponente The Limits to Capital. È a questo libro, il meno letto ma anche il più importante di Harvey, che faremo di seguito riferimento per spiegare la natura della sua riappropriazione di Marx. Su Marx, in verità, Harvey è tornato successivamente molte volte, da ultimo con un accurato commentario del I libro del Capitale, pubblicato per Verso nel 2010. Ma i risultati conseguiti da Limits non sono mai revocati in dubbio, semmai solo diversamente articolati.
Il “punto di vista” della circolazione di capitale
Limits comincia con una rapida rassegna – più rapida delle ricostruzioni standard – delle categorie fondamentali del I libro del Capitale (valore d’uso, valore, plusvalore ecc.). Se, tuttavia, la ricchezza in forma di valore è prodotta nel processo di produzione, la sua distribuzione è dettata dalla regola della competizione intercapitalistica. Tale competizione porterà a un prezzo medio di produzione, che dovrà tenere conto non solo della diversa grandezza dei singoli capitali investiti, ma dei differenti tempi di rotazione del capitale. Qui vi è la prima innovazione di Limits: mentre Marx aveva nel III libro calcolato il prezzo di produzione tenendo conto solo della diversa grandezza del capitale investito, con il capitale più grande a sottrarre ricchezza in forma di valore al capitale più piccolo, in Harvey la competizione che conduce alla fissazione del prezzo medio di produzione è anche quella fra capitali con differenti tempi di rotazione. Nei settori in cui il capitale riaffluisce più lentamente nelle mani dei suoi iniziali possessori, il volume dei profitti sarà, in una data unità temporale, minore. Per questa ragione, fino a quando non si formerà un prezzo medio di produzione, i capitali tenderanno ad addensarsi nei settori in cui si verifica un tempo di rotazione più veloce.
Se tuttavia, come indicato dal II libro del Capitale, il capitale con il più alto tasso di redditività è il capitale che ha un tasso più alto di “ritorni” in una data unità temporale, allora sarà fondamentale:
1) assicurarsi la realizzazione del valore della merce, e cioè la sua vendita effettiva;
2) abbattere i costi e i tempi di circolazione (i costi e i tempi di trasporto, di transazione, di marketing ecc.).
Il punto 1) ci immette direttamente nella questione delle condizioni di realizzazione del valore della merce, e cioè dell’esistenza di una domanda effettiva. Nel I libro non solo Marx non si preoccupa di determinare le condizioni di domanda, ma dischiude uno scenario teorico, caratterizzato dall’immiserimento relativo progressivo del proletariato e dalla crescita delle disuguaglianze di classe, che impedisce propriamente che quelle condizioni siano soddisfatte: come sperare di convertire merce in denaro (la vendita), se una fonte essenziale di domanda, quella costituita dai redditi della classe lavoratrice, viene, a causa del procedere del meccanismo accumulativo, progressivamente inaridita? Sennonché, e su ciò Harvey insiste lungamente in Limits, il diagramma dello sviluppo capitalistico schizzato soprattutto alla fine del I libro è subito smentito dal II libro, e in particolare dai suoi famosi “schemi di riproduzione”: questi presuppongono, infatti, una economia capitalistica divisa in due settori (beni di consumo e mezzi di produzione), fra i quali si stabilisce, pur in mezzo a molte tensioni e scosse di assestamento, un certo grado di equilibrio. E questo equilibrio comporta anche che le condizioni di domanda siano se non proporzionate almeno non disallineate dalla forma di movimento del processo di accumulazione. Il che significa che se ci si trasferisce sul terreno della circolazione capitalistica complessiva, dell’equilibrio fra i due settori principali della vita economica, le conseguenze (immiserimento e disuguaglianze), analizzate nel I libro, della spasmodica ricerca di plusvalore effettuata da ogni singolo capitalista attraverso i metodi del plusvalore relativo e assoluto, devono essere temperate. Il consumo della classe lavoratrice, insomma, dovrà crescere anch’esso.
Per Harvey nel II libro sono, quindi, poste le condizioni della “stabilizzazione automatica” del capitalismo cui abbiamo assistito, attraverso fordismo e keynesismo, nel Novecento. Con la giornata di lavoro di 8 ore pagata 5 dollari decisa da Henry Ford nel 1914 e i deficit spending keynesiani, ciò che viene seppellito è il capitalismo manchesteriano del I libro del Capitale. D’altro canto, ed è un punto su cui Harvey si è intrattenuto soprattutto nei suoi ultimi libri, la fase economica e sociale che si è aperta negli anni ’70 sembra aver ripristinato un modello di sviluppo capitalistico esemplato sullo schema teorico del I libro: il neoliberismo si caratterizza, infatti, a giudizio di Harvey, per aver smantellato del “patto socialdemocratico” del secondo dopoguerra tanto i meccanismi di “sostegno alla domanda” quanto le regolazioni istituzionali (economiche e politiche) della competizione intercapitalistica. Sono la debolezza della domanda e l’intensificazione della concorrenza a rendere oggi la circolazione capitalistica complessiva sempre meno equilibrata e soggetta a sbalzi e rotture.
Naturalmente, Harvey sa bene che la crescita dei consumi finali della classe lavoratrice o dei consumi collettivi non basta a risolvere il problema della “realizzazione”, della conversione della merce in denaro. Devono intervenire altri fattori: il consumo dei beni di lusso, da parte dei detentori di grandi ricchezze, e, soprattutto, l’acquisto di mezzi di produzione da parte di altri capitalisti per l’allargamento della propria base produttiva. Affinché tale acquisto sia eseguito, però, il capitalista deve anticipare un capitale o farselo anticipare: per diverse ragioni (perché strumento di centralizzazione dei capitali, di lubrificazione della circolazione ecc.) nel capitalismo questa operazione è, ed è stata, mediata dal sistema del credito. Il sistema del credito crea cioè moneta, la moneta di credito, prestandola al capitalista industriale per consentirgli di acquistare quel pacchetto aggiuntivo di mezzi di produzione funzionali all’allargamento del processo produttivo. Citando Marx, Harvey ricorda che questa creazione di moneta è un atto di fede “protestante”: se si tratta di un buon prestito, coronato dal pagamento dei dovuti interessi, si vedrà solo al termine del processo produttivo, quando si verificherà sul mercato se le nuove merci prodotte si sono trasformate in denaro oppure no.
Ma al di là della funzione giocata dal sistema del credito nella riproduzione sociale capitalistica, su cui a breve si ritornerà, questo ragionamento è decisivo anche sotto il profilo della “realizzazione”: se per il conseguimento di un qualche equilibrio fra offerta aggregata di beni e domanda aggregata risulta determinante l’acquisto di un nuovo contingente di mezzi di produzione, questo significherà che, in ultima analisi, la stabilizzazione del capitalismo è ottenibile soltanto attraverso il progresso dell’accumulazione. Solo l’accumulazione può stabilizzare l’accumulazione. Da un altro versante, ci viene riconsegnata l’immagine di un capitalismo che o è pura dinamicità o non è. Tutto ciò, peraltro – e qui crediamo che sia difficile non consentire con Harvey –, è in linea con l’esperienza storica: l’epoca di più forte stabilità del capitalismo, la meno punteggiata da crisi, crack ecc., è stata quella in cui il capitalismo è cresciuto di più, la cosiddetta golden age (1945-1975).
La centralizzazione creditizia e la mediazione dello Stato sono fondamentali anche in ordine alla realizzazione di quanto indicato nel punto 2), e cioè la necessità, per accelerare il tempo di rotazione del capitale, di abbattere i costi e i tempi di circolazione. Le grandi rivoluzioni nei mezzi di trasporto e di comunicazione, che rendono ciò possibile, sono indisgiungibili – dice qui Harvey ricollegandosi alle analoghe osservazioni di Marx intorno alle ferrovie nel capitolo XXIII del I libro del Capitale – dalla capacità del sistema del credito e dei pubblici poteri di radunare a questo scopo una ingente massa di capitale.
A livello teorico, le grandi rivoluzioni nei sistemi di trasporto e comunicazione sono richieste, per Harvey, da una necessità intrinseca al capitale stesso, il quale, per dirla con il Marx dei Grundrisse,“tende per sua natura a superare ogni limite nello spazio. La creazione delle condizioni fisiche dello scambio – ossia mezzi di comunicazione e di trasporto – per esso diventa necessaria in tutt’altra misura – diventa l’annullamento dello spazio mediante il tempo”. Lo spazio, la sussistenza autonoma dei momenti dell’essere, è un ostacolo da rimuovere per qualcosa, come il capitale, la cui più intima natura è di essere processo, pura temporalità ascensiva. In quanto tale, il capitale non “circola” soltanto quando, ultimato il processo di produzione, occorre scambiare la merce con altre merci. Esso è, per essenza, circolazione, fluida unità di momenti, ciascuno dei quali non può sospendere la sua continuazione nell’altro. Che cosa vuol dire questo, scendendo sul terreno economico-sociale? Vuol dire – dice Harvey in Limits ma anche, e con particolare energia, nel suo ultimo libro, L’enigma del capitale – che il capitale non può tollerare di giacere più del dovuto in ciascuna delle sue stazioni di sviluppo. Se ciò accade, e per esempio il capitale rimane “ozioso” nelle mani dei finanzieri, oppure dà vita a un processo produttivo più lungo della media, oppure si incorpora in merci che tardano a convertirsi in denaro, allora la conseguenza è la svalorizzazione del capitale stesso: è la crisi.
Finora abbiamo detto qualcosa sul resoconto che Harvey fornisce della prima e della terza delle stazioni di sviluppo del ciclo di capitale, lasciando da parte la seconda, quella propriamente produttiva. Sebbene quello di Harvey sia, a differenza di buona parte del marxismo novecentesco, più un marxismo della “circolazione” che della “produzione”, ciò non vuol dire che la sua attenzione per l’analisi del processo produttivo sia ridotta. Il punto focale della sua impostazione riguarda, tuttavia, di nuovo il “tempo”, in questo caso del processo produttivo. L’idea è che non sia vero che l’organizzazione del processo produttivo debba tendere immancabilmente verso l’integrazione verticale, verso la costituzione di unità di impresa di carattere monopolistico. È certamente conveniente, dice Harvey, fondere diverse unità di capitale sì da utilizzare, a parità di prodotto, una quota minore di capitale costante (di macchinari ecc.) rispetto al capitale variabile, al lavoro vivo. Al contrario, più imprese vi sono e più linee di produzione, con i mezzi di produzione ad esse collegati, vi saranno, rendendo impossibile le economie di scala. Ma il fatto è che la concentrazione monopolistica allunga il tempo di rotazione del capitale, perché i processi produttivi saranno necessariamente più complessi e rigidi. Il capitale di una grande impresa ritorna, maggiorato, al punto di partenza, dopo aver attraversato la fase della produzione e della circolazione, con più fatica rispetto al capitale di una impresa più piccola, la quale, facendo “circolare” più velocemente lo stesso, otterrà, sotto questo riguardo, una percentuale di profitti sul capitale anticipato più alta.
Il mix tecnologico-organizzativo che si installa all’interno di un processo produttivo sarà quindi l’esito di un “compromesso” fra la tendenza alla integrazione verticale e quella alla scomposizione orizzontale. Con ciò, Harvey batte in breccia uno dei topoi della cultura marxista novecentesca: la inevitabilità della concentrazione monopolistica. Di più: in Limits vi è la precisa consapevolezza che il grado di integrazione verticale raggiunto dalle imprese nel secondo dopoguerra fosse divenuto un freno per la ripresa del processo accumulativo e che perciò il capitale avrebbe dovuto selezionare un mix tecnologico-organizzativo più aperto alle spinte verso la scomposizione orizzontale (crescita del subappalto, delle subforniture etc.). Il libro è del 1982, e non si può dire che manchi di un suo carattere “profetico”: la discussione sulla cosiddetta “specializzazione flessibile” divamperà di lì a poco (con il libro di Piore e Sabel, The Second Industrial Divide, che è del 1984, i lavori di Zeitlin, Porter ecc.).
Assorbimento del surplus e postmodernismo
L’attenzione verso il piano della circolazione capitalistica complessiva comanda, tuttavia, anche un ulteriore passaggio d’analisi, che ci conduce alla novità più rilevante di Limits rispetto al punto di partenza marxiano. La novità è la seguente: la competizione intercapitalistica per la distribuzione del surplus, cui abbiamo già accennato, determina un aumento del capitale costante, ma anche, e progressivamente, un aumento della massa di surplus disponibile (è la dinamica che Marx inscrive sotto la categoria di “plusvalore relativo”); ma se così è, si porrà con sempre più urgenza la necessità di trovare per questo surplus crescente sbocchi adeguati e remunerativi. Se ciò non accade, il destino sarà quello della svalorizzazione del capitale, e cioè, di nuovo, la crisi. Riecheggiando, ci pare, i Baran e Sweezy di Capitale monopolistico, Harvey definisce tale questione come quella dell’“assorbimento del surplus”. Harvey ritiene che siano stati tre, essenzialmente, i modi che il capitalismo ha adottato per rispondere a questa sfida:
1) investimenti in capitale fisso sociale (infrastrutture, porti, autostrade, ecc.);
2) sviluppo delle attività finanziarie (che comprende anche la trasformazione della rendita immobiliare in titolo finanziario);
3) sviluppo della divisione geografica del lavoro oltre che di quella tecnica e sociale.
Se, empiricamente, i modi sono essenzialmente tre, concettualmente sono due: si tratta infatti di una ridislocazione spaziale (punto 1 e 3) e temporale (punto 2) della massa di surplus crescente.
Lo spazio, che il capitale vuole, in linea di principio, annullare, torna quindi a giocare un ruolo di una certa rilevanza allorché si tratta di impiegare in modo redditizio il surplus. Capire di ciò le ragioni, dice Harvey, non è difficile: gli investimenti in capitale fisso sociale o nel ridisegno degli assetti urbanistici e geografici (dalla gentrification allo sviluppo improvviso di nuove città, da ultimo quelle cinesi come Shenzen ecc.) comportano, per definizione, la mobilitazione di un ampio quantitativo di risorse. Ma lo stesso accade alle attività finanziarie: la scommessa sul valore futuro (ecco la ridislocazione temporale) dei titoli accende una corsa ai rendimenti più alti che attrae a sé un gran volume di risorse monetarie.
Non sono queste, tuttavia, “soluzioni”, in ultima battuta, pacificatrici. Si apre, anzi, un nuovo campo di tensioni, complesso e arduo da governare. La crescita delle attività finanziarie offrirà certo un sollievo agli investitori, visti gli alti tassi di redditività che usualmente vi si connettono, ma avrà pure la conseguenza di acuire la gravità delle crisi economiche (attraverso lo scoppio delle bolle, e quindi la necessità di riallineare i valori pretesi con quelli reali delle attività economiche). E gli investimenti in capitale fisso sociale offriranno, certo, all’abbondante surplus uno spatial fix vasto e ramificato, ma avranno pure la spiacevole conseguenza di estendere i tempi di rotazione del capitale, considerata la lunghezza dei processi produttivi che ne stanno alla base. Un’analoga contraddizione investe i processi di urbanizzazione o il city management: per un verso, la valorizzazione della città, attraverso lo sfruttamento di tutti i possibili vantaggi competitivi che essa può garantire, implica il benefico impiego di quote crescenti di surplus; per altro verso, la specifica vischiosità degli investimenti urbani – la necessità di attendere molto tempo prima che i loro costi siano “ammortizzati” – impedisce di mettere in atto una politica urbana spregiudicata e più “volatile”.
L’integrazione dello “spazio”, degli aspetti geografici e urbani, nell’analisi del processo accumulativo rappresenta il merito principale del disegno di Harvey. Prima di lui, solo Henri Lefebvre e, in modo minore, Gerald Cohen avevano provato a ritagliare nel pensiero marxista una finestra dedicata ai problemi posti dallo “spazio”. Questa sensibilità – e del resto Harvey non ha mai smesso di essere anzitutto un geografo e un urbanista – gli ha permesso poi di scrivere La crisi della modernità, una delle più celebri ricostruzioni della condizione postmoderna, di quella condizione, cioè, il cui concetto nasce, come è largamente noto, proprio nel contesto del dibattito e della pratica architettonica. Sennonché ciò che qui è importante sottolineare è che la tesi portante de La crisi della modernità – e cioè che il postmodernismo rappresenti soltanto un prolungamento del modernismo e non una sua smentita, risolvendosi in una alterazione dell’equilibrio faticosamente stabilitosi nel modernismo fra valori “eterni” e “universali” e valori legati alla “contingenza”, a tutto vantaggio di quest’ultimi – non sarebbe mai venuta alla luce senza la preliminare ripresa della lettura di Marx avvenuta in Limits. Senza i nuovi attrezzi concettuali forgiati in Limits a contatto con il Marx del II e del III libro del Capitale, e senza in particolare la valorizzazione del concetto di “tempo di rotazione del capitale”, sarebbe infatti risultato più difficile ad Harvey osservare la trasformazione economica, politica e culturale realizzatasi nel corpo dei paesi occidentali a muovere dai primi anni ’70. Una trasformazione avvenuta nel segno della “compressione spazio-temporale”, della rinnovata sottomissione all’inquieto principio di determinazione del tempo delle compatte forme di mediazione sociali e culturali “moderniste”.
Capitolo 6 di Giorgio Cesarale, Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, manifestolibri, Roma 2012, pp. 95-106