Marco Riformetti | Lenin e la filosofia politica di Stato e rivoluzione. Introduzione
Questa Tesi di laurea in filosofia tratterà della teoria politica di un uomo che non è – né per formazione, né per ambizione – un filosofo [1]; un uomo che ha anzi fatto molto per farsi odiare dai filosofi e che tuttavia ha offerto un contributo fondamentale al pensiero umano e alla filosofia politica, se per filosofia politica intendiamo la riflessione sulle forme dell’agire politico e dell’organizzazione sociale e istituzionale.
Tra i nomi dei filosofi politici più studiati in ambito accademico di certo non troveremo il nome di quest’uomo, ma piuttosto quelli di Platone, o di Machiavelli, di Hobbes, Spinoza, Arendt, Rawls, Popper, Schmitt, Strauss…, autori tra i quali sussistono profonde differenze, ma che tuttavia condividono il fatto di pensare sé stessi come “consiglieri del Principe” e di impegnarsi ad aiutare il potere ad aiutare sé stesso, consolidando la propria capacità di governare le contraddizioni sociali e politiche affinché queste non esplodano in senso rivoluzionario. Nella sostanza, lo stesso vale per il buon Kant – con il suo uso pubblico e privato della ragione – e ancor più per Locke – con la sua “naturalizzazione” della proprietà privata –; per non parlare degli economisti politici inglesi (Smith, Ricardo) che pensano il mondo di cui sono figli come “fine della storia” (nel senso duplice di termine e di finalità).
Al contrario, il discorso del nostro uomo è il discorso di un uomo la cui teoria politica intende essere rivoluzionaria e concepisce sé stessa anzitutto come strumento di lotta contro il Principe. Ed è principalmente per tale ragione che questo uomo, Lenin, si è guadagnato l’indifferenza – e più spesso l’ostilità – dell’ambiente filosofico accademico il quale ha reagito alle sue idee e alla sua prassi nello stesso modo in cui gli assediati hanno sempre reagito agli assedianti: gettando olio bollente.
Mentre i “consiglieri del Principe” erano impegnati a negare o contenere il conflitto e a stipulare improbabili “contratti sociali”, Lenin, tutto all’opposto, ha impegnato la propria vita intera a consigliare i nemici del Principe, a spingere il conflitto verso le sue conseguenze ultime, a rompere i patti firmati solo da una parte e a produrre il rovesciamento rivoluzionario dell’ordine politico e sociale esistente.
Ecco perché la rimozione filosofica di Lenin non è per nulla un fatto filosofico, ma un ben preciso fatto politico che coltiva un ambizione semplicissima: negare qualsiasi “diritto di cittadinanza”, non tanto a Lenin, quanto piuttosto alla idea stessa dell’alterità rivoluzionaria. E per questa ragione, far conoscere la filosofia politica del non-filosofo Lenin è anche un modo per promuovere il pensiero della rivoluzione che è anche necessariamente rivoluzione delle forme del pensiero.
Questa Tesi di laurea in filosofia può essere letta, non appaia paradossale, anche come un “j’accuse” contro quella certa filosofia che, per dirla con Pierre Bourdieu, avendo scelto di non porsi criticamente verso la costruzione ideologica della realtà, finisce per diventarne complice; quella filosofia che avendo rinunciato ad essere “lato cattivo” [2] della storia si costituisce come clero e al tempo stesso ancella del potere.
Del resto, anche il campo della filosofia è un campo di battaglia rispetto al quale non ci si può non collocare, quando pure si ritenga di non averlo fatto.
Le parole di Lenin contro la filosofia sono certamente parole aspre. Il suo giudizio è netto, forse addirittura tranchant: la filosofia è ideologia, falsa coscienza, strumento di auto-legittimazione del potere: la più falsa delle vie false [3].
“È anche un testo lucido: non a caso si chiude con queste sorprendenti parole di Dietzgen, citate da Lenin: noi abbiamo bisogno di seguire una via giusta; ora, per seguire una via giusta bisogna studiare la filosofia che è «la più falsa delle vie false», ossia delle vie che non portano in nessun posto (den Holzweg der Holzwege). Il che significa propriamente che non può esserci una via giusta (dobbiamo intendere: nelle scienze, ma innanzi tutto nella politica) senza uno studio, e oltre questo senza una teoria della filosofia come falsa via, ossia come via che non porta in nessun posto. Ecco probabilmente la ragione ultima, oltre tutte quelle che abbiamo citate prima, per cui Lenin è insopportabile alla filosofia universitaria e, per non fare torto a nessuno, alla grande maggioranza dei filosofi, se non a tutti i filosofi, universitari o no. Ci è o ci è stato, una volta o l’altra, filosoficamente insopportabile a tutti (parlo evidentemente anche di me)” [4]
Niente di più normale, dunque, che la filosofia accademica abbia preso male i giudizi di Lenin ed abbia cercato anzitutto di dimostrare che tali giudizi erano frutto della sua “rozzezza filosofica” senza peraltro ricordare che la sofisticatezza della filosofia è spesso sfociata in sofisticheria – quando non addirittura in sofisticazione – e che proprio essa viene considerata responsabile della sua progressiva incapacità di parlare al e del mondo, della sua crisi.
A ben guardare, la polemica di Lenin non è rivolta tanto contro la filosofia quanto piuttosto contro una certa filosofia
“Lenin, richiamandosi a Dietzgen, condanna i professori di filosofia nella loro massa, e non tutti i professori di filosofia senza eccezione. Condanna la loro filosofia, ma non condanna la filosofia. Raccomanda anzi di studiare la loro filosofia per potere definire e seguire, in filosofia, una pratica diversa dalla loro.” [5]
E del resto ci sono almeno due fatti che testimoniano con chiarezza la grande importanza che Lenin attribuisce alla filosofia, seppure in un rapporto che potrebbe essere definito di amore e odio.
Il primo fatto riguarda la scelta, a tutta prima inspiegabile, di approfondire gli studi filosofici (e soprattutto gli studi sulla filosofia di Hegel [6]) proprio all’indomani di un evento di straordinaria importanza storico-politica quale fu il tracollo della socialdemocrazia internazionale di fronte all’esplosione della Prima guerra mondiale [7] e che in teoria avrebbe dovuto assorbire Lenin in un lavoro prettamente politico
“La scelta, solitaria e, quantomeno in apparenza, altamente improbabile, di Hegel, e più precisamente della Scienza della logica, quale terreno privilegiato, e quasi esclusivo per il periodo decisivo dall’agosto al dicembre 1914, di questa rottura deve essere esso stesso inteso come un incontro tra molteplici serie di determinazioni eterogenee, alle quali solo l’effetto retrospettivo dell’incontro conferisce unitarietà e convergenza” [8]
Il secondo fatto lo possiamo desumere da una celebre osservazione annotata da Lenin nei suoi appunti sulla dialettica
“Aforisma. Non si può comprendere a pieno Il capitale di Marx, e in particolare il suo primo capitolo, se non si è studiata attentamente e capita ‘tutta’ la logica di Hegel. Di conseguenza, dopo mezzo secolo, nessun marxista ha capito Marx!” [9]
Come appunto sottolinea Lenin, si tratta “solo” di un aforisma; di un aforisma, tuttavia, che assume un significato del tutto particolare non appena si confronti l’importanza che Lenin attribuisce alla conoscenza della dialettica hegeliana con l’importanza che Marx attribuisce alla Scienza della logica
“Si è definitivamente preso atto dell’esistenza di una stratificazione interna anche per quanto riguarda l’interpretazione di Hegel: si sono individuate sostanzialmente due letture, la prima giovanile, direttamente influenzata dalla sinistra hegeliana e dalla temperie culturale del Vormärz; la seconda risalente al 1857, periodo in cui Marx scrive il primo grande abbozzo complessivo della teoria del modo di produzione capitalistico; Marx asserisce che rileggere la Scienza della logica gli è stato di grande aiuto per quanto riguarda il metodo [cfr. lettera ad Engels del 16 gennaio 1857]” [10]
Negli anni in cui l’anelito del comunismo – e più in generale della liberazione coloniale, sessuale… – sembravano dilagare inarrestabili in tutto il mondo anche l’accademia era stata condotta ad aprirsi per accogliere gli studi marxisti; c’era un mercato da soddisfare, dopotutto, e l’accademia lo soddisfaceva, sia pure con una certa riluttanza. Oggi che il comunismo sembra scomparso dal campo anche soltanto del pensabile, uno spazio di studi marxisti resta in vita precariamente in ambito accademico solo grazie allo sforzo di qualche generoso e tale generosità merita di essere ripagata, almeno, con lo studio; e tenendo presente il pericolo, sempre in agguato, che la “Marx reinessance” si riveli in realtà il semplice tentativo di proporre una versione “light” del pensiero di Marx ad uso e consumo di riflessioni accademiche che con Marx hanno assai poco a che fare e che tendono ad esaltarne il lato analitico, eclissandone completamente quello rivoluzionario per trasformarlo in una “icona”, sì, ma del tutto inoffensiva, una vera e propria “tigre di carta”.
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Noi non ci occuperemo, ovviamente, dell’intera filosofia politica di Lenin che è sparsa in un contributo molto vasto (45 volumi di circa 500 pagine [11]); né ci occuperemo di testi che appaiono immediatamente filosofici (come Materialismo ed empiriocriticismo o gli appunti su Hegel) oppure di testi che sono densi di filosofia politica anche se non appaiono immediatamente filosofici (come Che fare? oppure La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky).
Ci occuperemo “soltanto” di quella specifica parte del corpus leniniano che affronta la teoria dello Stato, della democrazia e del comunismo così come emerge dalle pagine di Stato e rivoluzione, un testo molto amato ai tempi degli osanna e molto dimenticato oggi, in questi tempi di oblio. In ogni caso, un testo controverso al punto che sarà talvolta considerato come il meno leninista dei testi di Lenin [12].
Note
[1] Cfr. Althusser [1968], “Comunicazione filosofica” tenuta il 24 febbraio 1968 a Parigi alla Société Française de Philosophie.
[2] “Anche il feudalesimo aveva il suo proletariato: i servi della gleba, in cui erano racchiusi i germi della borghesia. Anche la produzione feudale aveva elementi antagonistici; che, se si vuole, possono essere ben designati come il lato buono e il lato cattivo del feudalesimo, senza pensare che è quello cosiddetto cattivo che finisce sempre con l’avere il sopravvento. È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta.” (Cfr. Marx [1950])
[3] Cfr. Lenin [1909].
[4] Althusser [1968], pag. 19.
[5] Althusser [1968], pag. 49.
[6] Una posizione estrema a questo proposito è quella di Kevin Anderson che colloca il pensiero maturo di Lenin in ambito apertamente hegelo-marxista: “I will argue that Lenin’s post-1914 work, especially on the dialectic, places him closer to Key Hegelian or “Western” Marxists such as Georg Lukacs and the members of the Frankfurt School than to ortodox Marxists, including Soviet Marxist-Leninists” (in Anderson [1995], pag. xv).
[7] Come è noto, l’Internazionale Socialista – la II – si divise sul voto ai cosiddetti “crediti di guerra” che furono sostenuti da quasi tutte le sue sezioni nazionali, annichilendo il principio fondamentale su cui era nato il movimento socialista: l’internazionalismo.
[8] Cfr. Kouvélakis [2016].
[9] Lenin [38], pag. 167.
[10] Fineschi [2006], pag. 17. In realtà la lettera è del 16 gennaio 1858 e il passo è il seguente: «What was of great use to me as regards method of treatment was Hegel’s Logic at which I had taken another look by mere accident, Freiligrath having found and made me a present of several volumes of Hegel, originally the property of Bakunin. If ever the time comes when such work is again possible, I should very much like to write 2 or 3 sheets making accessible to the common reader the rational aspect of the method which Hegel not only discovered but also mystified» [Marx [1858]. Divertente che Marx abbia riletto la Scienza da testi di Hegel che erano appartenuti al rivale anarchico Bakunin. Significativo che, come avrebbe fatto di nuovo nel 1867 nella Prefazione alla I edizione del Capitale, Marx parli di mistificazione della dialettica hegeliana.
[11] Nell’edizione delle Opere complete pubblicata da Editori Riuniti negli anni ’50-‘60.
[12] Cfr. Evans [1987].