Beverly J. Silver | Le fonti del potere operaio
Nel linguaggio di Erik Olin Wright possiamo parlare di “potere associativo” (associational power) e “potere strutturale” (structural power) dei lavoratori: “In questo articolo, la nostra attenzione si concentra soprattutto su ciò che definisco potere associativo della classe operaia – le varie forme di potere che derivano dalla formazione di organizzazioni collettive dei lavoratori. Ciò che include sindacati e partiti, ma anche una varietà di altre forme, come consigli di fabbrica, forme di rappresentanza istituzionale dei lavoratori nei consigli di amministrazione dentro situazioni di compartecipazione o anche, in talune circostanze, organizzazioni comunitarie. Il potere associativo può essere messo a confronto con quello che può essere definito come potere strutturale della classe operaia – ovvero il potere che deriva dalla semplice collocazione dei lavoratori all’interno del sistema economico. Il potere che deriva direttamente dalla rigidità del mercato del lavoro o dalla posizione strategica di un determinato gruppo di lavoratori all’interno di un settore industriale strategico costituiscono esempi di potere strutturale” (Erik Olin Wright, Working-Class Power, Capitalist-Class Interests, and Class Compromise, “American Journal of Sociology”, 105, 4, pp. 957-1002, Trad: Antiper 2011). [Antiper]
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Tratto da Beverly J. Silver, Le forze del lavoro, Introduzione. La crisi dei movimenti operai e degli studi sul movimento operaio, I conflitti della classe operaia in una prospettiva storico-mondiale: quadro teorico e concettuale, Bruno Mondadori Editore, 2008, EPUB, 311 pag.
Le controversie sulla situazione attuale della classe operaia mondiale presuppongono diverse visioni dell’impatto della globalizzazione contemporanea sul potere contrattuale dei lavoratori. Un utile punto di partenza è la distinzione fatta da Eric Olin Wright tra potere associativo e potere strutturale: il primo consiste nelle «varie forme di potere derivanti dalla formazione di organizzazioni collettive di lavoratori» (soprattutto sindacati e partici politici); il secondo, invece, consiste nel potere derivante «semplicemente dalla collocazione dei lavoratori […] nel sistema economico». Wright suddivide poi il potere strutturale in due sottocategorie: la prima, che chiameremo “potere di contrattazione legato al mercato”, è il potere che «risulta direttamente da mercati del lavoro rigidi»; la seconda, che chiameremo “potere contrattuale legato al luogo di lavoro” è il potere che deriva «dalla collocazione strategica di un gruppo specifico di lavoratori all’interno di un settore industriale fondamentale» (Wright 2000, p. 962).
Il potere di contrattazione legato al mercato può assumere varie forme, quali:
- il possesso di competenze rare e ricercate dai datori di lavoro;
- bassi livelli di disoccupazione generale;
- la capacità dei lavoratori di uscire completamente dal mercato del lavoro e sopravvivere grazie a fonti di reddito non salariali.8
D’altra parte, la seconda sottocategoria – il potere contrattuale legato al luogo di lavoro – appartiene ai lavoratori che si trovano immersi in processi produttivi strettamente integrati, per cui uno sciopero locale in un punto nodale può causare seri danni, di entità molto maggiore dello sciopero in sé. Questo tipo di potere contrattuale appare in tutta la sua evidenza quando intere catene di montaggio si fermano a causa del blocco di un singolo segmento o quando l’intera produzione di aziende che si basano sulla consegna just in time dei pezzi d’assemblaggio viene bloccata da uno sciopero dei trasporti.9
Coloro che ritengono che la globalizzazione porti con sé una grave crisi dei movimenti operai, individuano il pericolo proprio nella capacità delle varie manifestazioni della globalizzazione di indebolire tutte queste forme di potere contrattuale dei lavoratori. Da questo punto di vista, il potere contrattuale connesso al mercato appare minato dalla mobilitazione di un “esercito industriale di riserva” su scala mondiale, che ha creato un’offerta globale eccessiva nel mercato del lavoro. Inoltre, nella misura in cui i settori agricolo e manifatturiero sono divenuti parte del capitalismo globale, le fonti di reddito non salariale sono diminuite; questo ha portato sempre più persone alla proletarizzazione, indebolendo ulteriormente il potere contrattuale derivante dalle condizioni del mercato. Infine, limitando in qualche modo la sovranità statale, la globalizzazione ha minato il potere associativo di contrattazione della classe operaia. Storicamente, infatti, il potere associativo è sempre stato strettamente connesso alla struttura legislativa statale, che forniva alcune garanzie quali il diritto di formare un sindacato e l’obbligo per i datori di lavoro alla contrattazione collettiva. L’indebolimento della sovranità statale ha portato a sua volta a un ulteriore affievolimento del potere di contrattazione legato al mercato, che si era rafforzato attraverso le politiche di welfare, responsabili sia della creazione di una “rete di protezione sociale” sia della diminuzione della concorrenza sul mercato del lavoro.
In effetti, alla globalizzazione viene spesso attribuita la responsabilità di aver creato un circolo vizioso, in cui l’indebolimento del potere di contrattazione legato alle condizioni del mercato mina il potere associativo e viceversa. Dunque, la mobilitazione delle riserve mondiali di manodopera non solo ha danneggiato direttamente il potere di contrattazione dei lavoratori, ma ha anche contribuito a delegittimare ai loro occhi i sindacati e i partiti politici, poiché è diventato più difficile per queste organizzazioni creare e distribuire vantaggi per i propri iscritti. Come se ciò non bastasse, gli attacchi diretti dai datori di lavoro e dagli stati contro le organizzazioni dei lavoratori (unitamente al collasso dei contratti sociali tipici del dopoguerra) hanno indebolito direttamente il potere associativo di contrattazione, oltre a determinare un’ulteriore erosione del potere di contrattazione legato al mercato, rendendo sempre più difficile per le organizzazioni dei lavoratori difendere ed estendere efficacemente le politiche statali della “rete di protezione sociale”.
Se l’ipermobilità del capitale è ritenuta da molti la responsabile dell’indebolimento del potere contrattuale associativo e di mercato, alle conseguenti trasformazioni “postfordiste” nell’organizzazione del lavoro e nei processi produttivi viene per lo più ascritto il venir meno del potere di contrattazione legato al luogo di lavoro. La pratica del subappalto e altre forme di disgregazione verticale del processo di produzione avrebbero provocato l’inversione della storica tendenza alla crescita del potere contrattuale legato al luogo di lavoro determinata dall’espansione del modello fordista di produzione di massa. Tale modello tendeva infatti a rafforzare considerevolmente il potere contrattuale legato al luogo di lavoro, in quanto rendeva le sorti del capitale strettamente dipendenti dall’azione dei lavoratori in un determinato luogo di produzione. E pur vero che le forme di produzione a flusso continuo (compresa la catena di montaggio) tendevano per contro a ridurre il potere contrattuale legato al mercato attraverso l’omogeneizzazione e la dequalificazione del lavoro industriale, e rendendo possibile (e addirittura preferibile) l’assunzione di quegli eserciti di riserva di manodopera che hanno poca o nessuna esperienza lavorativa nell’industria; inoltre, la produzione a flusso continuo ha gradualmente indebolito anche il potere associativo di contrattazione, ingrossando le fila del proletariato con “una massa di lavoratori non sindacalizzati” che non potevano essere facilmente assorbiti dalle associazioni di categoria o dai partiti di sinistra.
In ogni caso, il potere contrattuale della forza lavoro legato al luogo di lavoro aumentò a vari livelli. In primo luogo – come divenne evidente negli anni trenta negli Stati Uniti e poi si mostrò ripetutamente in vari altri luoghi nei decenni a venire – il modello della catena di montaggio permetteva a un gruppo organizzato relativamente esiguo di lavoratori collocati in posizioni strategiche di boicottare la produzione di un’intera fabbrica (vedi il capitolo 2). In secondo luogo, con la crescente integrazione della produzione tra unità produttive di una stessa azienda, uno sciopero in un’unità che produceva un componente fondamentale poteva portare al blocco di tutti gli altri stabilimenti operanti in successione, e persino al blocco totale della produzione aziendale. Infine, con l’incremento della concentrazione e della centralizzazione della produzione, aumentava anche il danno causato all’economia di un intero paese da uno sciopero indetto in una delle sue grandi imprese o in un settore chiave (come quello dei trasporti, che garantiscono i collegamenti tra le fabbriche e con i luoghi di vendita). Questo è particolarmente vero per quanto riguarda i lavoratori dei settori da cui un paese dipende fortemente, per il commercio con l’estero. Come ha sostenuto Charles Bergquist (1986), nel Terzo Mondo un gruppo di lavoratori relativamente ristretto legato a importanti settori dell’esportazione e dei trasporti (come i porti, le ferrovie e gli aeroporti) è in grado di destabilizzare un’intera economia tanto quanto il singolo settore industriale o la singola azienda.10
La questione riguardo a se e in che misura il potere di contrattazione associativo, quello legato al luogo di lavoro e quello legato alle condizioni del mercato risultino minati dalle trasformazioni della produzione tipiche del postfordismo – come suggeriscono molte analisi contemporanee – sarà uno dei temi chiave trattati nei capitoli 2 e 3. Nei capitoli 3 e 4, si indagherà invece sulla possibilità che non ci sia una corrispondenza univoca tra il potere contrattuale dei lavoratori e l’effettivo uso di questo potere per ottenere il miglioramento delle proprie condizioni di lavoro e di vita. In effetti, una parte degli studi sulla globalizzazione e il lavoro discussi precedentemente sostengono che la crisi dei movimenti operai sia dovuta non tanto alle trasformazioni delle condizioni strutturali di lavoro, quanto ai mutamenti avvenuti nel dibattito intorno a tali temi. In particolare, si ritiene che l’idea che non vi siano alternative alla globalizzazione (il motto TINA) abbia esercitato un potente effetto di smobilitazione sui movimenti operai. Come hanno notato Frances Piven e Richard Cloward, «l’idea di potere» in sé ha costituito una fonte importante di potere per i lavoratori (Piven e Cloward 2000, pp. 413-414). Le mobilitazioni dello scorso secolo erano alimentate dalla convinzione che i lavoratori hanno davvero potere e che il loro potere può essere usato per modificare in senso positivo le loro condizioni di lavoro e di vita. Quello che la globalizzazione è riuscita a compiere più di qualsiasi altra cosa è soprattutto, secondo Piven e Cloward, «la distruzione della convinzione vecchia di almeno un secolo del potere dei lavoratori» (ibid.), creando così un contesto che ha prostrato il morale politico popolare e la volontà di lottare per il cambiamento. Tali rivolgimenti nelle convinzioni dei lavoratori riguardo al proprio potere contrattuale riflettono in parte i rivolgimenti del potere di contrattazione associativo e strutturale, ma, sicuramente, giocano anche un loro proprio ruolo nelle dinamiche dei movimenti operai.
Nel chiarire l’evoluzione nello spazio e nel tempo di queste diverse forme di potere contrattuale dei lavoratori, la nostra analisi seguirà due teorie riguardo alla relazione tra le lotte operaie e i processi di accumulazione del capitale su scala mondiale. Entrambe sono incentrate sulle contraddizioni sociali insite nella trasformazione del lavoro in merce, ma, mentre la prima teoria guarda alla discontinuità temporale della trasformazione, la seconda si focalizza sulla disomogeneità spaziale. Esaminiamole ora brevemente.