Louis Althusser | Introduzione al I Libro del Capitale. Punto I (parte seconda)
Louis Althusser | Introduzione al I Libro del Capitale. Punto I (parte seconda), PDF, A5, 11 pag. | Postfazione di Antiper
Louis Althusser | Introduzione al I Libro del Capitale (parte prima)
Le maggiori difficoltà, sia teoriche che di altro genere, che ostacolano una facile lettura del libro I del Capitale, sono sfortunatamente (o fortunatamente) concentrate nell’apertura stessa del libro I, e precisamente nella sua prima sezione, che tratta di “Merce e denaro”.
Do dunque il seguente consiglio: mettere provvisoriamente fra parentesi tutta la sezione I, e cominciare la lettura dalla sezione II: “La trasformazione del denaro in capitale”.
Si può, a mio giudizio, cominciare (e soltanto cominciare) a comprendere la sezione I, solo dopo aver letto e riletto tutto il libro I a partire dalla sezione II.
Questo è più di un consiglio: è una raccomandazione che mi permetto di presentare, con tutto il rispetto che devo ai miei lettori, come una raccomandazione imperativa.
Ognuno ne può fare l’esperienza pratica.
Se si comincia a leggere il libro I dal suo inizio, cioè dalla sezione I, o non si capisce, e si abbandona; o si crede di capire, ciò che è ancora più grave, perché vi sono forti probabilità d’aver capito tutt’altra cosa di quanto c’è da capire.
A partire dalla sezione II (trasformazione del denaro in capitale), le cose sono luminose. Si penetra allora direttamente nel cuore stesso del libro I.
Questo cuore è la teoria del plusvalore, che i proletari comprendono senza difficoltà alcuna, perché, molto semplicemente, si tratta della teoria scientifica di ciò di cui hanno quotidiana esperienza: lo sfruttamento di classe.
Seguono immediatamente due sezioni molto dense, ma chiarissime, e decisive per la lotta delle classi, perfino oggi: la sezione III e la sezione IV. Esse trattano delle due forme fondamentali del plusvalore di cui dispone la classe capitalista per spingere al massimo lo sfruttamento della classe operaia: ciò che Marx chiama il plusvalore assoluto (sezione III), e il plusvalore relativo (sezione IV).
Il plusvalore assoluto (sezione III) verte sulla durata della giornata lavorativa. Marx spiega che la classe capitalista spinge inesorabilmente all’aumento della durata della giornata lavorativa, e che la lotta di classe operaia, più che centenaria, ha per obiettivo di strappare una diminuzione della durata della giornata lavorativa, lottando contro il suo aumento.
Si conoscono, storicamente, le tappe di questa lotta: giornata di 12 ore, di 10 ore, poi di 8 ore, e finalmente, durante il Fronte popolare, la settimana di quaranta ore.
Tutti i proletari sanno per esperienza quello che Marx dimostra nella sezione III: l’irriducibile tendenza, propria del sistema capitalistico, al massimo accrescimento dello sfruttamento attraverso una maggior durata della giornata lavorativa (o della settimana lavorativa). Tale risultato è raggiunto sia a dispetto della legislazione esistente (le 40 ore non sono state mai realmente applicate), sia per mezzo della legislazione esistente (ad esempio, le “ore straordinarie”). In apparenza può sembrare che le ore straordinarie “costino moltissimo” ai capitalisti dato che le pagano al venticinque, cinquanta, cento per cento sopra il livello delle ore normali. Ma in realtà sono vantaggiose perché permettono alle “macchine”, che hanno vita sempre più breve, a causa dei rapidi sviluppi della tecnologia, di funzionare ventiquattro ore su ventiquattro. In altre parole, le ore di straordinario permettono ai capitalisti di ottenere il massimo di profitto dalla “produttività”. Marx ha ben dimostrato che la classe capitalista non paga e non pagherà mai ore straordinarie agli operai per far loro piacere, o per permetter loro di arrotondare, a scapito della salute, il proprio reddito, ma per sfruttarli maggiormente.
Il plusvalore relativo (sezione IV), di cui si è intravista in filigrana l’esistenza nella questione delle ore straordinarie, è senza dubbio la forma n.1 dello sfruttamento contemporaneo. Essa è molto più sottile, perché meno direttamente visibile dell’aumento della durata del lavoro. Nondimeno il proletariato reagisce istintivamente, se non contro di essa, quanto meno, come vedremo, contro i suoi effetti.
Il plusvalore relativo, di fatto, si basa sulla intensificazione della meccanizzazione della produzione (industriale e agricola), e dunque sulla produttività crescente che ne risulta. Esso tende attualmente verso l’automazione. Produrre il massimo di merci al prezzo più basso, per ottenere il massimo di profitto: questa è la tendenza irriducibile del capitalismo. Tale tendenza va naturalmente di pari passo con l’accrescimento dello sfruttamento della forza lavoro.
C’è la tendenza a parlare di “mutamento” o di “rivoluzione” nella tecnologia contemporanea.
In realtà Marx aveva affermato fin dal Manifesto e dimostrato nel Capitale che il modo di produzione capitalistico si caratterizza per la “continua rivoluzione nei mezzi di produzione”, anzitutto negli strumenti di produzione (tecnologia). Ciò che accade da dieci-quindici anni è dichiarato “senza precedenti” con grandi proclami, ed è vero che da qualche anno le cose si sviluppano più rapidamente di prima. Ma si tratta di una semplice differenza di grado, non di una differenza di natura. Tutta la storia del capitalismo è la storia di un prodigioso sviluppo della produttività, attraverso lo sviluppo della tecnologia.
Attualmente ne risulta, come d’altra parte in passato, l’introduzione di macchine sempre più perfezionate nel processo lavorativo – che permettono di produrre la medesima quantità di prodotti di una volta in tempi due, tre o quattro volte inferiori, – dunque un chiaro sviluppo della produttività. Ma, in correlazione, ne risultano precisi effetti nella radicalizzazione dello sfruttamento della forza-lavoro (accelerazione dei ritmi, riduzione dell’occupazione), non soltanto all’interno del proletariato, ma anche a livello dei lavoratori salariati non-proletari, ivi compresi taluni quadri tecnici, perfino di categoria elevata, che “non sono più all’altezza” del progresso tecnico, e dunque non hanno più valore di mercato, da cui la conseguente disoccupazione.
È di tutto ciò che Marx tratta, con estremo rigore ed estrema precisione, nella sezione IV (il plusvalore relativo).
Egli smonta i meccanismi dello sfruttamento attraverso lo sviluppo della produttività, nelle sue forme concrete. Così dimostra che mai lo sviluppo della produttività può spontaneamente tornare a vantaggio della classe operaia, tutt’al contrario, avendo la precisa funzione di aumentarne lo sfruttamento. Marx dimostra così, in maniera inconfutabile, che la classe operaia non può sperare di beneficiare dello sviluppo della produttività moderna prima di aver rovesciato il capitalismo ed essersi impadronita del potere dello Stato con una rivoluzione socialista. Egli dimostra che di qui alla presa del potere rivoluzionario che apre la via al socialismo, la classe operaia non può avere altro obiettivo, e dunque altra possibilità, che lottare contro gli effetti dello sfruttamento prodotti dallo sviluppo della produttività, per limitare questi effetti (lotta contro i ritmi, contro l’arbitrarietà dei premi di produzione, contro le ore straordinarie, contro l’eliminazione dei posti di lavoro, contro “la disoccupazione della produttività”). Lotta essenzialmente difensiva, e non offensiva.
Consiglio allora il lettore, arrivato alla fine della IV sezione, di lasciare provvisoriamente da parte la Sezione V (ricerche ulteriori sul plusvalore) e di passare direttamente alla luminosa VI sezione sul salario.
Qui, ancora una volta, i proletari sono letteralmente a casa propria, perché Marx vi esamina, oltre la mistificazione borghese che dichiara che il “lavoro” dell’operaio è “pagato secondo il suo valore”, le differenti forme di salario: il salario a tempo innanzitutto, poi il salario a cottimo, cioè le diverse trappole nelle quali la borghesia cerca di catturare la coscienza operaia per distruggere in essa ogni volontà di lotta di classe organizzata. Qui i proletari riconosceranno che la loro lotta di classe non può che opporsi in maniera antagonista alla radicalizzazione dello sfruttamento capitalistico.
Qui, essi riconosceranno che, sul piano del salario, o, come dicono i ministri e i loro rispettivi “economisti”, sul piano del “livello di vita” o dei “redditi”, la lotta di classe economica del proletariato e degli altri salariati può avere un solo senso: una lotta difensiva, contro l’obiettiva tendenza del sistema capitalistico ad aumentare lo sfruttamento in tutte le sue forme.
Diciamo bene che si tratta di lotta difensiva, dunque di lotta contro la riduzione del salario.
Resta ben inteso che ogni lotta contro la riduzione del salario è anche e nello stesso tempo una lotta per l’aumento del salario reale. Ma parlare soltanto di lotta per l’aumento vale a designarne l’effetto rischiando di nasconderne causa ed obiettivo. Tendendo il capitalismo, in modo inesorabile, alla riduzione del salario, la lotta per l’aumento del salario è dunque, nel suo stesso principio, una lotta difensiva contro la tendenza del capitalismo a ridurre il salario.
È allora perfettamente chiaro, come sottolinea, Marx nella VI sezione, che la questione del salario non può in alcun modo risolversi “da sola” attraverso la “distribuzione” agli operai e agli altri lavoratori dei “benefici” dello sviluppo, per quanto spettacolare, della produttività. La questione del salario è una questione di lotta di classe. Essa non si risolve “da sola”, ma attraverso la lotta di classe: anzitutto con le varie forme di sciopero che sboccheranno prima o poi nello sciopero generale.
Che questo sciopero generale resti puramente economico e dunque difensivo (“difesa degli interessi materiali e morali dei lavoratori”, lotta contro la duplice tendenza del capitale all’aumento della durata del lavoro e alla diminuzione del salario), o prenda una forma politica e dunque offensiva (lotta per la conquista del potere dello Stato, la rivoluzione socialista, e la costruzione del socialismo), tutti coloro che conoscono le distinzioni operate da Marx, Engels e Lenin sanno quale differenza separa la lotta di classe politica dalla lotta di classe economica.
La lotta di classe economica (sindacale) resta difensiva perché economica (contro le due grandi tendenze del capitalismo). La lotta di classe politica è offensiva perché politica (per la presa del potere da parte della classe operaia e dei suoi alleati).
Occorre distinguere bene queste due lotte; benché, nella realtà, esse sconfinino sempre l’una nell’altra: più o meno secondo le circostanze.
Una cosa è certa, e l’analisi che Marx fa delle lotte di classe in Inghilterra nel libro I lo dimostra: una lotta di classe che si vorrebbe deliberatamente confinare al solo campo della lotta di classe economica resta e resterà sempre difensiva, dunque senza speranza di rovesciare mai il regime capitalistico. È la maggior tentazione dei riformisti, fabiani, trade-unionisti di cui parla Marx, e, in generale, della tradizione socialdemocratica della II Internazionale. Solo una lotta politica può “invertire la corrente” e superare tali limiti, dunque cessare di essere difensiva per diventare offensiva. Questa conclusione si può leggere non solo fra le righe del Capitale. La si può leggere a chiare lettere nei testi politici dello stesso Marx, di Engels e di Lenin. È la prima questione del Movimento operaio internazionale, dopo che si è “fuso” con la teoria marxista.
I lettori potranno, in seguito, passare alla sezione VII (“Il processo di accumulazione del capitale”), che è molto chiara. In essa Marx spiega che la tendenza del capitalismo consiste nel riprodurre e allargare la base stessa del capitale, trasformando in capitale il plusvalore estorto ai proletari, così che il capitale non cessa di “crescere a valanga”, per estorcere continuamente più pluslavoro (plusvalore) ai proletari. E Marx lo mostra in una magnifica “illustrazione” concreta: quella dell’Inghilterra dal 1846 al 1866.
Quanto alla sezione VIII (“L’accumulazione originaria”), che chiude il libro I, contiene la seconda grandissima scoperta di Marx. La prima è la scoperta del plusvalore. La seconda è la scoperta degli incredibili mezzi con cui è stata realizzata “l’accumulazione originaria” grazie alla quale, anche per l’esistenza di una massa di “lavoratori liberi” (vale a dire privi di mezzi di lavoro), e per il succedersi di scoperte tecnologiche, il capitalismo ha potuto “nascere” e svilupparsi nelle società occidentali. Questi mezzi sono quelli della peggior violenza, del furto e dei massacri che hanno aperto al capitalismo la sua strada maestra nella storia umana. Quest’ultimo capitolo contiene prodigiose ricchezze che non sono state ancora utilizzate: in particolare la tesi (che si dovrà sviluppare) secondo cui il capitalismo non ha mai cessato di impiegare, e continua ad impiegare in pieno XX secolo, ai “margini” della sua esistenza metropolitana, cioè nei paesi coloniali ed ex-coloniali, i mezzi della peggiore violenza.
Consiglio dunque con insistenza il seguente metodo di lettura:
1) Lasciare deliberatamente da parte, in una prima lettura, la sezione I (Merce e denaro).
2) Cominciare la lettura del libro I dalla sezione II (Trasformazione del denaro in capitale).
3) Leggere attentamente le sezioni II, III (La produzione del plusvalore assoluto) e IV (La produzione del plusvalore relativo).
4) Lasciare da parte la sezione V (Nuove ricerche sul plusvalore).
5) Leggere attentamente le sezioni VI (Il salario), VII (L’accumulazione del capitale) e VIII (L’accumulazione originaria).
6) Infine cominciare a leggere, con estrema precauzione, la sezione I (Merce e denaro), sapendo che essa resterà sempre di difficilissima comprensione, anche dopo diverse letture delle altre sezioni, senza l’ausilio di un certo numero di spiegazioni approfondite [1]. Posso garantire che i lettori (i quali vorranno osservare con scrupolo questo ordine di lettura, ricordando ciò che è stato detto sulle difficoltà politiche e teoriche di ogni lettura del Capitale) non lo rimpiangeranno.
Note
[1] Cfr. Una science révolutionnaire. Presentazione del I libro del Capitale, ed. Maspero, Paris, 1969.