Marco Riformetti | Umberto Massola e gli scioperi del marzo-aprile 1943. Sulla dialettica dei fattori: la parola d’ordine delle 192 ore
Tratto da Marco Riformetti, Umberto Massola e gli scioperi del marzo-aprile 1943, Paper per l’esame di Storia dell’Italia Contemporanea, Storia e civiltà, Pisa, giugno 2022

La premessa da cui muoviamo è semplice: in ogni mobilitazione giocano fattori oggettivi (che stanno nell’ambito delle forze che spingono spontaneamente all’azione) e fattori soggettivi (che sono determinati dalla dimensione organizzata dell’azione). Tra i principali fattori oggettivi che influenzano gli eventi di cui trattiamo ci sono, ovviamente, gli effetti economici della guerra sui lavoratori
«Gli orari di lavoro si allungano; il costo della vita sale vertiginosamente; i generi di prima necessità sono razionati e le razioni sono scarse; a volte, per l’imboscamento e il mercato nero, non si trova nemmeno il poco concesso. Poi cominciano i bombardamenti, i dolori, l’ansia» [1]
Ma i bombardamenti non colpiscono tutti allo stesso modo
«Le città furono anche gli obiettivi principali della guerra aerea alleata, che ebbe come finalità esplicita la diffusione del terrore nella popolazione urbana. I quartieri più colpiti erano vicini alle fabbriche e alle stazioni, le aree classiche di insediamento delle famiglie operaie» (Ibidem)
Chi può sfolla. E chi può sono anzitutto le famiglie più agiate che hanno di dove riparare e di che pagare per essere ospitati
«Chi ha sfollato aveva i mezzi – si leggeva in un volantino dell’inizio del 1943 –. Chi non ha sfollato sono i più poveri, rimasti ad affrontare le bombe senza che il governo barbaro preparasse loro i necessari rifugi […]. La maggior parte degli sfollati sono impiegati, capisquadra, capi reparto, capiofficina, ingegneri ricchi.» [2]
Moltissimi operai sono costretti a restare in città (e sotto le bombe, visto che vivono negli stessi quartieri in cui sorgono gli impianti industriali e bellici che sono gli obbiettivi degli Alleati).
In questa situazione i comunisti devono valutare se scegliere – o meno – parole d’ordine esplicitamente politiche; e devono valutare anche se scegliere forme di lotta che estendano la mobilitazione oltre la fabbrica in modo da generalizzarne il significato (è la linea di Amerigo Clocchiatti) oppure proporre rivendicazioni più strettamente “operaie” e mantenere la mobilitazione all’interno delle fabbriche (la linea di Leo Lanfranco) [3]. Prevale la linea di Lanfranco e sulla base delle indicazioni dei comunisti che operano nelle fabbriche [4] viene scelta come principale parola d’ordine una rivendicazione che intende sottolineare il carattere classista e antioperaio del fascismo in modo da compattare la classe operaia contro di esso: le “192 ore”
«Quella delle 192 ore pagate soltanto ai capifamiglia sfollati sarà il motivo di agitazione che, ad esempio, gli organizzatori comunisti […] sceglieranno come parola d’ordine capace di trascinare alla protesta anche i lavoratori meno coscienti politicamente, più timorosi» [5]
«“Cominciammo a preparare lo sciopero del marzo 1943 nel mese di febbraio, in base alla rivendicazione delle 192 ore […] Per la cessazione del lavoro la direttiva era: ‘Al fischio della sirena delle ore 10 tutti fermi!’”» [6]
Adottare una parola d’ordine dal carattere politico indiretto è una scelta che punta ad ottenere la massima adesione e ad evitare mobilitazioni minoritarie che oltre tutto permetterebbero una facile individuazione degli organizzatori.
Per inciso, nella scelta del regime di destinare il provvedimento delle “192 ore” solo agli sfollati giocano due fattori: innanzitutto c’è un fattore di risparmio visto che le risorse sono poche e non possono essere distribuite a tutti; si scelgono gli sfollati con la giustificazione che lo sfollamento costa e allunga la giornata a causa degli spostamenti. Ma c’è anche un secondo fattore legato al fatto che la classe operaia non si è mai fascistizzata come invece ha fatto quella piccola e media borghesia che sfolla dalle città bombardate; il carattere discriminatorio del provvedimento ha dunque origine nella difesa, da parte del regime, della propria base sociale e di consenso.
Ovviamente, non appena il movimento degli scioperi cresce i comunisti ne offrono una chiave di lettura marcatamente politica; già nel numero del 15 marzo 1943 «l’Unità» scrive
«Sciopero di 100.000 operai torinesi. In tutto il paese si segua il loro esempio. Per conquistare il pane, la pace e la libertà» [7]
dove è evidente che se il “pane” è metafora della fine della povertà, la “pace” e la “libertà” sono metafora rispettivamente della fine della guerra e della fine del fascismo; si tratta, quindi, di parole d’ordine tutt’altro che sindacali (ove si pensi che, in certa misura, riecheggiano quelle della Rivoluzione d’Ottobre [8]). Tutto questo per dire dell’inconsistenza di quella storiografia [9] che tende a ridurre gli scioperi del 1943 a una pura e semplice manifestazione di disagio economico [10] dentro la quale i comunisti svolgono un ruolo del tutto marginale (ruolo che invece le stesse autorità fasciste tendono in genere a rimarcare con forza).
Note
[1] Cfr. FINZI [2013].
[2] Cfr. SPRIANO [1972].
[3] MASSOLA [1973], pag. 61. Clocchiatti e Lanfranco sono dirigenti comunisti a Torino.
[4] MASSOLA [1973], pag. 107.
[5] Cfr. SPRIANO [1972].
[6] Chi parla è un lavoratore della società Aeronautica. Cfr. MASSOLA [1973], pag. 71.
[7] UNITA [19431].
[8] Cfr. LENIN [1917]. In Russia a “pace”, “pane” e “libertà” si era aggiunta la parola d’ordine della “terra”, cara ai contadini poveri (ma inadatta ad una mobilitazione operaia urbana).
[9] De Felice riconosce solo la rilevanza quantitativa del fenomeno degli scioperi, ma non aggiunge molto sul carattere politico delle mobilitazioni e sull’influenza dei comunisti al loro interno (cfr. FINZI [2013], pag. 47).
[10] Sul carattere “nettamente politico” degli scioperi del marzo 1943 cfr. Federico Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino, 1961, pag. 112.