Marco Riformetti | Kant, Hegel, Marx e i diritti dei lavoratori

All’indomani della Rivoluzione francese del 1789 e del varo della Costituzione del 1791 Kant pubblica un lungo saggio politico dal titolo Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica [1] nel quale si occupa di molte cose e, tra le altre, dei fondamenti morali del diritto.
Nel quadro di una ricognizione sul rapporto tra teoria e prassi nel campo del diritto pubblico e dello Stato Kant propone anche una riflessione sulle condizioni che, a suo avviso, permetterebbero ad una persona di essere titolare dei diritti politici: queste condizioni sono la libertà come essere umano, l’uguaglianza come suddito, l’indipendenza come cittadino [2]. Solo in uno Stato in cui una persona è libera, uguale e indipendente essa può concorrere alla formazione delle decisioni che riguardano la comunità attraverso l’esercizio del diritto di voto.
Concentriamoci sulla terza condizione, la condizione dell’indipendenza come cittadino. Kant ritiene “indipendenti” solo coloro che dispongono di una qualche proprietà o di una qualche capacità di scambiare con denaro manufatti da essi prodotti. Gli esempi proposti da Kant non sono sempre efficaci, ma risulta ben chiaro che non sono indipendenti i lavoratori salariati
«nei casi in cui debba venir retribuito da altri per vivere, lo sia solo tramite l’alienazione di ciò che è suo, non tramite la concessione, da lui data ad altri, di far uso delle sue forze, e perciò non serva, nel senso proprio della parola, nessuno se non la cosa comune» [3]
Lasciamo perdere la frase, abbastanza ridicola, secondo cui chi non è lavoratore dipendente non serve nessuno, se non la cosa comune. Il borghese Kant non può certo capire che è proprio chi “ha del suo” che pensa solo a quello; lo aveva invece genialmente compreso Platone che infatti prescriveva nella Repubblica che gli uomini destinati alla salvaguardia della cosa comune dovessero essere privi di proprietà, persino familiare.
Secondo Kant la dipendenza materiale provoca una dipendenza politica che impedisce l’autonomo esercizio del diritto di voto; colui che dipende è influenzato nelle proprie scelte da colui da cui dipende (ad esempio, il lavoratore vota come il padrone per compiacerlo e per non subire da questi delle rappresaglie). Non è una considerazione per nulla peregrina ove si pensi che nel 1848, quando in Francia viene introdotto il suffragio universale maschile, si va a votare tutti assieme, in processione, e si esprime pubblicamente il proprio voto. Inoltre, che spesso la dipendenza materiale sia connessa anche ad una dipendenza culturale risulta tuttora evidentissimo non appena si osservi come i lavoratori spendano molte più energie per tifare la squadra del cuore che per organizzarsi politicamente e mandare i capitalisti a lavorare.
Da un altro punto di vista il ragionamento di Kant sembra però singolarmente povero per un filosofo di norma acuto come lui; infatti, se è vero che il lavoratore salariato dipende dal salario, nondimeno il vasaio dipende dal lavoratore che compra i vasi così come il contadino dipende dal lavoratore che compra la frutta e la verdura.
Ma ancor più interessante è la riflessione che Hegel sviluppa nella Fenomenologia dello spirito dove sembra rispondere proprio al filosofo di Konisberg quando mostra che nel rapporto tra servo [4] e signore il signore dipende dal servo quanto il servo dipende dal signore.
Innanzi tutto, il signore dipende dal servo per la propria identità di signore [5]
«perché il Signore è tale unicamente per il fatto di avere un Servo che lo riconosce come Signore» [6]
Ma la dipendenza del signore dal servo non è legata solo al riconoscimento reciproco bensì è anche e soprattutto materiale dal momento che è il servo che produce, con il proprio lavoro, ogni cosa necessaria al signore per sopravvivere come persona e come signore. Ed è proprio attraverso il lavoro che, secondo Hegel, il servo diventa capace di plasmare il mondo e sviluppare il processo della propria autocoscienza, che in definitiva è il processo della propria liberazione [7].
La dialettica di Hegel è dunque molto più interessante, ricca ed efficace nel rappresentare la realtà rispetto alla teoria di Kant. Ma dopotutto anche in Hegel la sussistenza del servo e del signore non viene messa in discussione e la liberazione del servo si realizza proprio attraverso l’atto di essere tale.
Bisogna aspettare Marx per comprendere quale sia il tipo di rapporto che il servo (ora possiamo dire il lavoratore salariato e, per abbreviare, il lavoratore) intrattiene con l’oggetto del suo lavoro e con la sua stessa attività di lavorare. Con Marx non ci sono equivoci: il lavoro salariato è fonte di alienazione, non di liberazione (come lascia intendere Hegel). Anzi, la liberazione del lavoratore salariato è, anzitutto, liberazione dal lavoro salariato, riappropriazione sociale dell’oggetto del proprio lavoro e della propria stessa attività produttiva; sociale, non individuale, perché non si tratta di far sì che i produttori di pomodori si prendano una parte dei pomodori e quelli di gomme per auto un po’ di gomme, ma di far sì che tutta la produzione sociale sia riappropriata collettivamente dall’intera società e redistribuita secondo il lavoro e le necessità. In altre parole, si tratta di fare il socialismo e, quando ve ne saranno le possibilità storiche, il comunismo [8].
Kant, lo abbiamo visto, nega ai lavoratori il diritto di voto. Ma c’è un altro diritto negato da Kant, questa volta a tutti i cittadini, votanti e non. Si tratta del diritto alla resistenza, del diritto di opposizione e lotta, che secondo Kant nessuna Costituzione può prevedere se non vuole negare sé stessa.
Questo può essere vero, ma la spiegazione è pragmatica e non teoretica. Lo dimostra il caso statunitense. Nella Costituzione degli Stati Uniti non esiste un esplicito riferimento al diritto di resistenza il quale però esiste nella Dichiarazione di indipendenza. La spiegazione è molto semplice: quando un movimento storico si leva per spodestare l’ancien regime ha bisogno di giustificare la propria rivolta come giusta e necessaria; ma quando quel movimento diventa actuel regime deve negare la rivolta contro sé stesso. Nelle Costituzioni il diritto alla resistenza o alla rivolta contro il tiranno può anche non esserci, ma ovviamente questo non impedisce per nulla che una tale resistenza o rivolta sia giusta e si sviluppi egualmente.
Si tratta di capire se le osservazioni di Kant sul diritto di resistenza sono solo delle banali constatazioni sul fatto che nessun potere legittima la propria deposizione (nel qual caso sarebbero di scarsissimo interesse) oppure se Kant ci vuol dire qualcosa di più, ovvero come la pensa sul diritto di resistenza in generale.
(Fine della prima parte)
Note
[1] Kant, Über den Gemeinspruch: Das mag in der Theorie richtig sein, taugt aber nicht für die Praxis, in «Berlinische Monatsschrift», 22 settembre 1793, pp. 201-284.
[2] Kant, Sette scritti politici liberi, a cura di Maria Chiara Pievatolo, pagg. 104-108, Link.
[3] Sul detto comune… in Kant, Sette scritti politici liberi, p. 108.
[4] Si noti come anche Kant si riferisca al lavoratore salariato come ad un servo quando afferma che è un vero e proprio “servire” il concedere l’uso della sua forza (marx avrebbe detto forza-lavoro).
[5] Anche se, secondo Hegel, il riconoscimento dovrebbe avvenire tra “pari” ovvero tra coscienze autonome e il servo non è tale.
[6] Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, 2022, p.31.
[7] Se non si avesse timore di essere blasfemi si potrebbe pensare ad una sorta di “Arbeit mach frei” di auschwitziana memoria.
[8] Con questa frase si vuol dire che esistono già oggi le condizioni storiche per il superamento del capitalismo nel socialismo, ma non quelle per il superamento del socialismo nel comunismo.